A chi di noi non è mai successo di parlare di storie, libri, racconti o film senza averli effettivamente esperiti, ovvero per sentito dire? Solo perché ieri ne hanno parlato alla radio, in televisione, o al bar, oppure perché ho letto la recensione in un blog., penso di conoscere l’oggetto di cui sto parlando.
La chiacchera di heideggeriana memoria colpisce ciò che dovrebbe andare al cuore pulsante dell’uomo: le forze vive trasmutate da certi autori nelle proprie opere letterarie o artistiche, che invece diventano l’ennesimo materiale del blaterare tiepido del conformismo.
In questo articolo voglio perciò proporre una contro-tendenza rispetto alla mia stessa abitudine di recensire opere (per quanto da me fruite direttamente) e proporre all’esperienza diretta del lettore un testo notevole.
Sta sempre a noi attraversare le cose: nessuna recensionne può darci la bellezza o la comprensione o l’intuizione. Sta a noi assaporare il gusto della libertà di un’esperienza estetica, il contatto con una dimensione altra rispetto ai soliti pensieri quotidiani, data da un libro o un film. Sta sempre a noi percepirne la vita interna, lasciarci sconvolgere da ciò che anche soltanto per un attimo scombina gli schemi, lasciando intravedere qualcosa, al di là del cadavere meccanico e ripetitivo della nostra mente.
Pensiamo sempre di conoscere tutto, ma quando viviamo, ci accorgiamo di non conoscere nulla.
Al lettore l’esperienza dell’immersione in alcuni stralci di uno stracitato romanzo del geniale R. Matheson.
“
Nei giorni come quello, in cui il cielo era coperto di nuvole, Robert Neville non era mai sicuro di quanto mancava al tramonto e a volte li trovava già nelle strade, prima di riuscire a rientrare in casa.
Se non avesse avuto tanta avversione per la matematica, avrebbe potuto calcolare l’ora approssimativa del loro arrivo;
invece, si atteneva ancora all’antica abitudine di regolarsi sul colore del cielo per stabilire la fine del giorno, e, nei pomeriggi senza sole, quel sistema non funzionava. Perciò, quando il cielo era grigio, non osava allontanarsi troppo dalla sua abitazione.
Fece il giro della villetta nel cupo grigiore del pomeriggio; dall’angolo delle labbra gli penzolava una sigaretta, che si lasciava dietro una sottile scia di fumo. Controllò ogni finestra per vedere se qualcuna delle tavole era staccata. Dopo gli assalti più violenti, molte assi rimanevano scheggiate o danneggiate in altro modo e bisognava sostituirle. Un lavoro che odiava. Ma quel giorno ne trovò solo una traballante. Davvero una bella fortuna, si disse.
Terminato l’esame della facciata, andò in cortile per dare un’occhiata alla serra e alla cisterna dell’acqua. A volte cercavano di danneggiare la struttura di sostegno della cisterna o di piegare e rompere i tubi che venivano dalla pompa. A volte lanciavano sassi al di sopra dell’alta recinzione che circondava la serra e di tanto in tanto riuscivano a sfondare la rete che la proteggeva in alto; allora Neville era costretto a sostituire qualche pannello di vetro.
Ma la cisterna e la serra, quel giorno, non apparivano danneggiate.
Rientrò in casa per prendere il martello e i chiodi e, nell’aprire l’uscio, scorse la propria immagine nello specchio che aveva inchiodato sul pannello, un mese prima. L’immagine era distorta, lo specchio era incrinato. Al primo attacco, le taglienti schegge di vetro argentato sarebbero cadute a terra. “Cadano pure” si disse Neville. “È l’ultimo specchio che inchiodo qui fuori. Non servono a niente, gli specchi. Meglio appendere una collana d’aglio. L’aglio è sempre efficace”.
Scivolò lentamente nel denso silenzio del salotto, si diresse a sinistra per imboccare il breve corridoio e poi ancora a sinistra per entrare nella camera da letto.
Un tempo, l’arredamento di quella stanza era allegro e confortevole, ma a quell’epoca le cose erano molto diverse. Adesso, l’aspetto era funzionale e basta. Poiché il letto e l’armadio occupavano pochissimo spazio, Neville aveva trasformato in laboratorio l’altra estremità della stanza.
La parete era quasi interamente occupata da un bancone con il ripiano di legno grezzo ingombro di una grossa sega a nastro, di un tornio da falegname, di una mola a smeriglio e di una morsa. Al di sopra, sulla parete, c’era una mensola occupata da una distesa disordinata degli attrezzi usati da Robert Neville.
Prese un martello dal bancone e prese alcuni chiodi da uno dei barattoli, tra quella baraonda. Quindi tornò fuori e inchiodò saldamente l’asse all’imposta. I chiodi inutilizzati li gettò tra il pietrisco vicino alla porta.
Per un poco ristette sul prato osservando da un lato all’altro, per tutta la sua lunghezza, la silenziosa Cimarron Street. Era un uomo alto, Neville, sui trentasei anni, di tipo prettamente anglosassone, dai lineamenti comuni, a eccezione della bocca larga dal taglio deciso e dell’azzurro intenso degli occhi che scrutavano ora le rovine carbonizzate delle villette ai due lati della sua. Le aveva bruciate lui, per impedire a loro di saltare sul suo tetto da quelli adiacenti.
Conclusione:
E di colpo pensò: “Ora sono io l’anormale. La normalità è un concetto di maggioranza, la norma di molti, e non la norma di uno solo.”
Quel pensiero all’improvviso si fuse con quello che vedeva sulle loro facce: timore, paura, orrore; e comprese che avevano paura di lui. Per loro, lui era una terribile calamità che mai avevano veduta, una calamità anche peggiore dell’infezione a cui si erano adattati. Lui era un invisibile spettro che lasciava quale prova della sua esistenza i corpi dissanguati dei loro cari. Capiva quel che provavano e non li odiava. La sua mano si strinse sul minuscolo involucro delle pillole. Per fare in modo che la fine non giungesse con violenza, per fare in modo che non divenisse una macellazione davanti ai loro occhi…
Robert Neville guardò il nuovo popolo della terra. Sapeva di non farne parte: sapeva che, come un tempo i vampiri, lui era un anatema e un nero terrore da distruggersi. E, di colpo, il concetto si formò, divertente nonostante il dolore.
Una risata soffocata gli salì alla gola. Si voltò, si appoggiò alla parete, inghiottì le pillole. “Il cerchio si chiude” pensò mentre il letargo finale si impadroniva delle sue membra. “Il cerchio si chiude. Un nuovo terrore nasce nella morte, una nuova superstizione penetra nell’inespugnabile fortezza dell’eternità.
“Io sono diventato una leggenda.”
Antologia di R. Matheson tratta dal sito di Giorgio Baruzzi (https://giorgiobaruzzi.altervista.org/)
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