C’era una volta…
Così cominciano tutte le fiabe, e tutte le storie. O meglio: le storie che contano, quelle che appassionano, che ti tengono col fiato sospeso, quelle che non puoi lasciare a metà, che ti prendono con la testa e con il cuore, potremmo dire parafrasando Tolkien. Ma l’esito di queste storie, i protagonisti, la conclusione non é affatto scontata, facile da intuire, all’inizio. Ecco perché le storie che più ci affascinano sono enigmatiche, misteriose: i thriller, i gialli, le commedie non banali, le composizione inaspettate. Alla luce del finale, sembra tutto ovvio. Ma nel presente, nulla è ovvio.
Ogni epoca ha avuto la sua fondazione. Ogni civiltà, i suoi padri. Ogni storia, il suo mito. Ma come ogni organismo, la storia nasce, cresce e muore. I padri a loro volta sono stati figli, e non pensavano di divenire padri, uomini rappresentativi, come direbbe Ralph Waldo Emerson, super-uomini, alla Friedrich Nitezsche. Cose’è un eroe? L’eroe è ciò su cui si fonda un mito, e dunque una storia. Ma l’eroe non nasce eroe, non sa di esserlo. L’eroe diventa eroe, decide, a un certo punto, di lottare per divenirlo, perché non può fare diversamente, solitamente non sa e probabilmente nemmeno gli importerebbe che a un certo atteggiamento potrebbe essere attaccata l’etichetta di eroismo. L’eroe sa trasformarsi, trascendere il suo tempo e il suo contesto, sublimando se stesso, ed è questa la forza del suo essere.
C’era una volta un eroe. Siamo capaci di riconoscere un eroe, quando ne incontriamo uno? Siamo capaci di essere degli eroi, senza la vanagloria di esserlo? Sapremmo dire oggi chi saranno coloro che saranno considerati in futuro i padri della civiltà che in questi giorni mette le proprie radici? E cosa faremmo, avendo tale consapevolezza, di non essere soltanto i figli, ma anche i padri di quel futuro, fuori da ogni retorica e ideologia?
Il genio di George Martin, maestro assoluto della letteratura contemporanea, profondo conoscitore della psiche e della simbolica umana, degli uomini e della società, ha scavato profondamente in queste e molte altre tematiche con il suo capolavoro Games of Thrones, reso noto dall’omonima serie televisiva.
In questo contesto è stata recensita la prima parte, la più lunga, di una delle più amata saghe del nostro evo, fino alla settima stagione. L’ottava stagione è stata a lungo attesa, immaginata, discussa. Una volta arrivata è stata divorata, assimilata, contestata, spoilerata.
Mi sono data del tempo, fuori dalla ressa dei fan, per lasciare passare l’onda emotiva. Gli spoiler sono arrivati, eppure non mi hanno scomposto né irritato, poiché avevo il presentimento che il genio eccezionale di quell’uomo (non saprei altrimenti come definirlo) non mi avrebbe deluso, che in qualche modo tutto avrebbe avuto un senso. Intanto cominciavano ad arrivare le lamentele, le delusioni, gli abbandoni. Eppure, quasi con fede, ho atteso, fino a che non è giunto il mio momento di assaporare con calma, fuori dalla tempesta, l’ottava stagione del Trono di Spade.
I primi tre episodi sono stati stranamente pacifici, caldi direi in qualche modo, probabilmente emotivo; lo spettatore ritrova i propri beniamini finalmente uniti all’insegna di una lotta epica che è difficile non condividere. La trama appare quasi scontata, eppure lo spettatore non è irritato poiché è proprio quello cui la propria psiche anela dopo varie traversie: che i propri desideri vengano esauditi, che la giustizia cosmica operi per il meglio, che ogni cosa vada al proprio posto, quello immaginato. Dopo sette stagioni di caos, George Martin sembra rassicurare i suoi fedeli seguaci: vedete, vi siete guadagnati il vostro pane quotidiano, la vostra dose di rassicurazione, poiché adesso tutto procede per il meglio.
Qualche blanda sorpresa alla fine della battaglia tra vivi e morti consente ai fan sfegatati di trastullarsi con la lotteria dell’uccisore del Re della Notte. Qualcosa di strano riecheggia tuttavia: lo stile è parecchio distante dal tipico metodo game of thrones (ovvero dall’estraniamento, il capovolgimento, lo shock). I personaggi risultano appiattiti, tutto segue i canoni tradizionali della narrazione. Una volta scongiurato in maniera prevedibile il rischio peggiore, comincia la vera storia. La fisionomia dei protagonisti è incerta: comincia a palesarsi il vero volto di George Martin, quel volto scioccante di narratore che è la cifra della sua opera, e che pure resta incompreso, traviato, dissimulato, comprensibile soltanto nel suo aspetto più superficiale. Come un bimbo che uccida per gioco i moscerini, cominciano a cadere le teste. Lo spettatore comincia a essere infastidito, dopo quell’intermezzo così bello lo scrittore non può distruggere tutto adesso… Eppure è proprio ciò che accade: la caduta degli idoli, in senso ancora una volta pienamente nietzschiano. George Martin è a modo suo un filosofo col martello: ama distruggere gli idoli del proprio seguace, i figli da lui stesso partoriti, come Saturno. Daenerys, Jon Snow: due delle principali leggende delle settima stagione crollano, pezzo a pezzo. Così gli Immacolati, così tanti altri. Niente è come sembra. Tutto ha un senso diverso. La storia delle casate? La lotta dualista tra buoni e cattivi, tra Stark e Lannister? Insensata, inutile, senza scopo. Lotte, stragi, drammi decennali per il trono e infine il trono, quel trono di spade che è il simbolo stesso di una intera serie, viene completamente distrutto.
Tutto ciò che ha costruito, il creatore provvede a fonderlo col più ardente dei fuochi. Il drago comprende che la propria Madre è morta per un solo motivo: non è George Martin, il suo sarcasmo o la sua insensibilità. L’insensibilità è piuttosto di chi partecipa alle stupide petizioni da cavalli per chiedere di cambiare il finale della serie. La regina Targaryen, simbolo della libertà dalle catene, si è tramutata nel suo opposto, è caduta vittima della sua brama per il potere, di una ideologia ancorata al sangue: e questo il suo figlio drago lo sa meglio di chiunque altro. Jon Snow è rimasto un bastardo, poiché si è bastardi senza radici nell’animo, e non nel sangue, nel non legarsi a un nome, a un destino già scritto. Ogni speranza è crollata, e ogni forza si è rivelata. Sansa, la ragazzina frivola con il poster del principe belloccio, è adesso la mitica regina del Nord, dai capelli di fuoco e dallo sguardo di ghiaccio.
“Il tuo sguardo è cambiato, adesso. Non mi parli più guardando per terra, ne hai viste tante, forse troppe. Forse saresti dovuta scappare da Approdo del Re quando ne avevi la possibilità, Uccelletto”, la ammonisce il Mastino dopo la battaglia con i non morti . “Non ci sarebbe stato nessun Dito Corto, e nessun Ramsey”.
“Senza nessun Dito Corto e senza nessun Ramsey sarei rimasta sempre un Uccelletto” risponde con occhi fermi la ragazza del Nord, ormai donna e signora.
In questo breve scambio di battute, scelto tra tanti altri di uguale levatura, è possibile ravvisare alcune delle ispirazioni dell’opera. Scappare, o restare. Tornare indietro, e cambiare tutto, ripartire da zero. Chi, davanti a una disgrazia, a un evento negativo, che muta irrimediabilmente e in maniera dolorosa la propria vita, il proprio corpo, la propria mente e in ultima analisi la propria consapevolezza, non ha mai desiderato di poter azzerare tutto e ripartire da zero? (Questo tema è affrontato in una commedia leggera con Adam Sandler, Cambia la tua vita vita con un click) Ma il punto è il seguente: cancellare dalla propria vita quell’evento significa cancellare la consapevolezza, e con la consapevolezza va in realtà perduto ciò che conta veramente: se stessi e la propria coscienza. Sansa, e Arya, hanno perseverato, hanno resistito, ma non hanno ceduto al potere, come Daenerys. A parziale discolpa di quest’ultima va detto che il potere da lei gestito era incommensurabilmente superiore, e dunque inconsurabilmente più difficile da gestire.
Qualcuno ha detto che sono comunque rimasti troppi Stark, e che dunque il gioco delle casate ha mantenuto un senso. Eppure la ruota che gira è stata fermata, come dice il vero dominatore della scena, l’animale razionale della saga, Tyrion Lannister: l’eredità di un trono che non c’è più, bruciato dal fuoco, come i libri sacri degli Jedi alla fine della saga di Star Wars, con somma gioia di Yoda (ma il sapere, come sappiamo non va mai perduto, e questo dovrebbe far riflettere su molti eventi, uno su tutti potrebbe essere il sapere della biblioteca alessandrina, quello atlantideo, o templare). L’eredità di un trono che viene raccolta per elezione: saranno i migliori, gli aristoi della migliore delle tradizioni politiche a scegliere, poiché sono i migliori a essere sopravvisuti, tra fortuna e bravura. Sceglieranno un re non più per diritti di sangue, ma per le sue capacità.
“Che sia anche il popolo a votare”, esclama all’improvviso Sam Tally, mentre si discute dopo lo scioccante scontro tra Cersei e Dany (anche qui gli sceneggiatori hanno strizzato l’occhio ai fedeli della saga, per poi scioccarli). Sembra un colpo di genio, che viene spazzato via da una risata e che si rivela per quello che è: un ottimismo privo di fondamenta logiche. Fareste votare il vostro cane o il vostro cavallo? L’ideale é aristocratico, nel suo senso più nobile e alto: a certe cose possono avere accesso pochi, ma non per privilegio o capriccio, bensì per le proprie capacità. Tra questi pochi, che si sono distinti per una carattere dalla tempra coriacea, nessuno ha scioccato più di tutti i fan di Bran lo Spezzato. Ragazzino che sembrava essere sopravvissuto per puro caso a una caduta letale, forse solo per riuscire a salvare il mondo dalla morte, potrebbe ipotizzare a un certo punto il fedele seguace di Got. Ma George Martin non ama i fedeli credenti: ha distrutto tutti i suoi idoli. Bran è il conoscitore della ruota del tempo, e sarà il primo dei re saggi che saprà governare affidandosi ad altrettanto saggi e validi consiglieri. Risulta scorretta, alla luce di quanto esposto, far circolare le immagini di Bran come del nuovo re del trono di spade: questo, molto semplicemente, perché non esiste più il trono di spade.
Un’era è terminata, una nuova era comincia. Quei ragazzini ingenui, tormentati, fragili e spesso anche viziati e superficiali (nel caso di alcuni Stark) sono divenuti i grandi fondatori di una civiltà. Uno sguardo nuovo, fresco sulle cose illumina la mente. Gli eroi sono delle categorie ammuffite e posticce che coprono il reale. Reale è ciò che avviene nonostante aspettative, illusioni e retoriche idealiste. Gli eroi siamo noi, quando riusciamo a scrollarci la polvere del passato e del dolore dalle spalle, a fare della nostra debolezza la nostra ricchezza, come ha ripetuto per sette stagioni Tyrion Lannister, e come hanno dimostrato tutti gli Stark sopravvissuti, oltre a Brienne di Tart, e Ser Davos, e via dicendo. Eppure il fedele seguace ha bisogno della sua nenia rassicurante che lo faccia addormentare, e non sente che invece la campana, apparentemente lontana, sta suonando proprio per lui.
«…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee.»
Articolo scritto da: Valentina C.
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