Mondo di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno sui cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. Eremo occulto di ciò che abbiamo fatto e ancora possiamo fare. Un introcosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. Questa coscienza, che è il mio me stesso più segreto, che è ogni cosa eppure non è nulla di nulla, che cos’è?
E da dove venne?
E perché?
E’ con questo inno quasi shakesperiano al mistero della coscienza che inizia Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, di Julian Jaynes, un libro ambiziosissimo (e ricchissimo) la cui lettura rappresenta un’esperienza intellettuale così profonda, e così stimolante, da lasciare senza fiato.
Julian Jaynes è stato professore di psicologia a Princeton, ma la sua cultura spaziava in ogni campo del sapere: archeologia, letteratura antica, linguistica, neurologia, arte, architettura. Questa vastità di conoscenze gli ha permesso di formulare una teoria sull’origine della coscienza capace di spiegare la struttura delle piramidi, uguale in ogni parte del mondo, la lingua usata da Hammurabi per dettare le sue leggi, l’evoluzione dell’uomo nella Bibbia, l’assenza di qualsiasi “io pensante” nella testa degli eroi dell’Iliade e l’assenza di qualsiasi “io pensante” persino nella testa di chi ha scritto il poema, le teocrazie del passato, il passaggio dalla caccia all’agricoltura e la nascita delle città, l’elegia greca dell’ottavo secolo avanti Cristo, la schizofrenia, la religione, la nascita e la decadenza della poesia, l’ipnosi, il potere della musica, i profeti e la possessione. Come qualsiasi teoria non dimostrabile può essere accettata o rifiutata: in ogni caso, ci troviamo di fronte a una concezione così ampia, e così profonda, che saremo costretti a rivedere molte delle nostre convinzioni, in campi fondamentali della vita.
Il problema della coscienza: è questo l’oggetto della teoria di Jaynes. Cos’é? Da dove è arrivata? Per quale motivo?
Jaynes è consapevole (stavo per scrivere cosciente…) della complessità del problema, e del fatto che da secoli l’uomo si impegna in riflessioni, in esperimenti, in tentativi di conciliare due presunte entità (chiamate, di volta in volta, mente e materia, soggetto e oggetto, anima e corpo), e in disquisizioni sui flussi, gli stati e i contenuti della coscienza. Il risultato di questi sforzi è una sequenza di teorie – la coscienza come apprendimento, la coscienza come proprietà del protoplasma, la coscienza come proprietà della materia, la coscienza come imposizione metafisica, e via dicendo – che Jaynes, nell’introduzione, analizza una a una, mostrando come tutte contengano errori concettuali insuperabili, o non siano in grado di rendere conto di tutti i fenomeni che noi, empiricamente, e con assoluta certezza, sappiamo ricondurre o imputare alla nostra coscienza. Liberato il campo dalle principali teorie formulate fino a questo momento (dove questo momento è il 1975, anno di pubblicazione del libro), Jaynes passa ad elencare tutte le cose che la coscienza non è, in un climax irresistibile: non è una copia dell’esperienza, non è necessaria per i concetti, non è necessaria per l’apprendimento, non è necessaria per il pensiero, non è necessaria per il pensiero; e per ciascuna negazione vengono portate così tante prove, dotate di una tale evidenza, che già alla fine del primo capitolo siamo convinti che la coscienza non serva a compiere la stragrande maggioranza delle azioni che un uomo, per quanto evoluto, compie durante la sua giornata, e la sua vita. Un esempio per tutti: quando guidiamo la macchina (un’attività particolarmente complessa, che richiede un’interazione continua e impegnativa con il mondo esterno) non usiamo la coscienza, che potrebbe essere impegnata in una telefonata, in una chiacchierata con un passeggero, o nella progettazione del weekend. E se le prove che Jaynes porta ci hanno convinto (io che le ho lette mi sono lasciato convincere) possiamo allora accettare che “sia esistita una razza di uomini che parlavano, giudicavano, ragionavano, risolvevano problemi, che facevano, in definitiva, quasi tutto quello che facciamo noi, ma che non erano affatto coscienti”. Ma fino a quando sono vissuti questi uomini? (E noi potremmo aggiungere: siamo sicuri che questi uomini siano molto diversi dagli uomini di oggi? Che l’uomo sia qualcosa di più di una macchina ben progettata? n.d.r.)
Prima di affrontare questo quesito, Jaynes dedica due capitoli particolarmente impegnativi a rispondere a un’altra domanda, che deriva dall’attività demolitrice del capitolo precedente: cos’è la coscienza? Perché la sua definizione, e la sua comprensione, sono così difficili? Secondo Jaynes, la comprensione di qualcosa consiste nel formulare una metafora che riconduca concetti sconosciuti ad esperienze vissute, a concetti famigliari. Ma il concetto di coscienza si oppone ai tentativi di metaforizzazione (e quindi di comprensione da parte della coscienza stessa), perché non può esserci nulla di simile all’esperienza immediata stessa: è necessario allora introdurre il concetto di analogo. La mappa di una città non è una metafora della città, ma è il suo analogo; e “la mente cosciente soggettiva è un analogo di quello che chiamiamo mondo reale. Essa è costruita con un vocabolario (o campo lessicale) i cui termini sono tutti metafore o analoghi del comportamento del mondo fisico”. L’attività della mente è espressa in termini di metafore – “vediamo” soluzioni “brillanti”, ci “accostiamo” a un problema, esprimiamo un “punto di vista”, “afferriamo un concetto”, con la nostra mente che può essere “aperta, “elastica”, “ristretta”, “profonda”. La realtà della coscienza è dello stesso ordine della matematica: più che una cosa, o un serbatoio di oggetti, è un operatore, che lavora su analoghi e metafore del mondo reale. E uno degli oggetti sui quali opera è l’analogo io. La coscienza è in grado di costruire una rappresentazione metaforica, o analogizzata, dell’io, che può essere fatto muovere in un mondo virtuale, al fine di prendere una decisione: è il modo con il quale ciascuno di noi sceglie un lavoro, un compagno, una casa. Senza questa capacità di vedere se stessi, di pensare ai propri pensieri, di immaginare il futuro o di rielaborare il passato, non c’è coscienza. (emerge da qui l’importanza della memoria, n. d.r.)
Jaynes scrive molte pagine sulla definizione della coscienza, e in alcuni paragrafi la complessità della sua esposizione richiede un po’ di impegno (“La coscienza è un prodotto dei metaferenti concreti dell’espressione e dei loro paraferenti, i quali proiettano paraferendi che esistono solo in senso funzionale”), ma il risultato è chiaro, e convincente: la coscienza definita attraverso i concetti di analogo e metafora possiede alcune caratteristiche ben precise, che Jaynes elenca e che risultano tutte conciliabili con la percezione che ne abbiamo; queste caratteristiche ci consentono di valutare se le azioni, le parole, e le opere di un essere umano presuppongono una coscienza o meno. (sarebbe interessante se qualcuno con le necessarie competenze effettuasse il confronto tra tali risultati e le più avanzate teorie sull’intelligenza artificiale, n. d. r.).
La volizione, la narratizzazione, la conciliazione, sono atti che solo un essere cosciente può compie, e che un essere cosciente compie necessariamente quando interagisce con il mondo. Ed è con questi strumenti che Jaynes può affrontare l’analisi della nascita della coscienza. Il primo “oggetto” che Jaynes decide di studiare è l’Iliade, il poema con il quale inizia ufficialmente la letteratura occidentale; e il risultato è sconcertante: nell’Iliade non esiste coscienza.
In tutta l’Iliade non compare alcuna parola parole che designino la coscienza o atti mentali. Le parole che in seguito designarono “cose mentali” hanno, all’interno del poema, significati diversi, tutti più concreti.
La parola psyche, che in seguito passò a significare “anima” o “mente cosciente”, designa, nella maggior parte dei casi, sostanze vitali, come il sangue o il respiro: un guerriero morente stilla la sua psyche al suolo, o la esala nell’ultimo ansito. Il thumos, che passerà in seguito a significare qualcosa di simile all’anima emozionale, designa semplicemente il movimento o l’agitazione. [..] Quando Glauco prega Apollo di alleviare il suo dolore e di dargli la forza di aiutare l’amico Sarpedonte, Apollo ascolta la sua preghiera e “infonde vigore nel suo thumos” (Iliade, XVI, 529). Il thumos può dire a un uomo di mangiare, bere o combattere. Diomede dice che Achille combatterà “quando nel petto il thumos gli parla e un dio lo sospinge”.
[..] Forse più importante è la parola noos che, scritta nous nel greco più tardo, venne a significare “mente cosciente”. La parola deriva dal verbo noeo, “io vedo”. La sua traduzione più appropriata sarebbe qualcosa come “percezione”, o “riconoscimento”, o “campo visivo”. Zeus “tiene Odisseo nel suo noos“. Egli vigila su di lui.
Tutte le traduzioni dell”Iliade commettono lo stesso errore: nel desiderio di dare una presunta qualità letteraria alla loro opera, usano termini moderni e, soprattutto, categorie soggettive che non rendono giustizia all’originale. Il verbo mermerizo che significa letteralmente “sono diviso in due parti riguardo qualcosa”, viene tradotto con “io pondero, io penso, ho la mente divisa, sono incerto, turbato, cerco di decidere”. Ma nell’Iliade il verbo è sempre riferito a un comportamento attivo, e il conflitto al quale il verbo si riferisce ha luogo nel thumos, mai nel noos. L’occhio, il campo visivo, non può essere in conflitto, come invece potrà la mente cosciente, che sarà “inventata” poco dopo.
E in tutta l‘Iliade non esiste un concetto di volontà, e non esiste una parola per designarla. Gli uomini dell’Iliade non hanno una propria volontà e non hanno alcuna nozione di libero arbitrio. Manca persino una parola per indicare il “corpo” nel senso moderno del termine: ci sono termini per indicare le varie parti del corpo, e Omero si riferisce sempre a queste, e mai al corpo nella sua totalità. L’arte micenea, temporalmente parallela alla nascita dell’Iliade, presenta l’uomo come un aggregato di membra stranamente costruite: non esiste l’analogo me.
Ma se gli uomini dell’Iliade sono privi di coscienza soggettiva, mente, anima o volontà, che cosa dà inizio a un comportamento? Cosa guida Achille, Ettore, Odisseo? “Le azioni non trovano il loro inizio in piani, ragioni e motivi coscienti, bensì nelle azioni e nei discorsi degli dei”. Quando verso la fine della guerra Achille ricorda ad Agamennone che questi gli ha sottratto la sua amante, Agamennone spiega che non fu lui la causa di tale atto, ma Zeus, e le Erinni che camminano nel buio, che gli gettarono l’ate addosso: che altro poteva fare? Gli Dei vincono sempre! E Achille cosa fa? Accetta la versione di Agamennone, perché anche lui, come il signore dei popoli conosce quelle voci, e sa come ogni uomo sia comandato da loro. Anche Omero inizia il suo poema invocando una dea: “Cantami l’ira, o dea!”. Tutto quello che segue è il racconto della dea che un aedo posseduto “udì” (vedremo dopo come) e cantò ai suoi ascoltatori.
Jaynes sta stringendo il cerchio attorno alla tesi principale del libro: chi erano questi dèi che muovevano gli uomini come fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano v o c i. Voci le cui istruzioni, le cui parole, potevano essere udite distintamente – allo stesso modo delle voci che gli schizofrenici, o Giovanna d’Arco, o i profeti, o gli oracoli, sentono. “Gli dèi erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può considerare come persone, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitorio. Il dio è parte dell’uomo”.
Il quadro che l’Iliade ci presenta è quindi caratterizzato da un senso di estraneità, di spietatezza e di vuoto. Non possiamo accostarci a questi eroi inventando, dietro i loro occhi fieri, spazi mentali come facciamo con ciascuno di noi. L’uomo dell’Iliade non ha una soggettività come noi; non ha consapevolezza della sua consapevolezza, non ha uno spazio mentale interno sui cui esercitare l’introspezione. Per distinguerla dalla nostra mente cosciente soggettiva, chiamiamo la forma mentale dei micenei mente bicamerale. La volizione, i progetti, l’iniziativa sono organizzati senza alcuna coscienza e vengono quindi “detti” all’individuo nel linguaggio che gli è familiare, a volte con l’aura visuale di un amico a lui caro o di una figura autorevole o di un “dio”, altre volte da una semplice voce. L’individuo obbedivano a queste voci allucinatorie perché non riusciva a “vedere” da sé che cosa fare.
Per sostenere questa tesi, che costringe a rivedere la storia dell’uomo, Jaynes ha bisogno di trovare le basi fisiologiche di questa mente bicamerale: dopo le competenze sull’Iliade, diventano necessario tirare fuori quelle sul funzionamento del cervello, sfruttando i casi in cui questo non funziona in modo “normale”. Ci si addentra quindi nel mondo degli psicotici, e in particolare degli schizofrenici che soffrono di allucinazioni uditive o visive. “Nella schizofrenia le voci assumono qualsiasi tipo di rapporto con l’individuo. Esse conversano, minacciano, imprecano, criticano, consigliano, spesso con brevi frasi. Ammoniscono, consolano, scherniscono, ordinano e a volte si limitano ad annunciare tutto ciò che accade. Urlano, piagnucolano, ghignano, e variano da un lieve sussurro a urla tonanti. Spesso assumono qualche peculiarità speciale: talvolta, per esempio, parlano molto lentamente, scandiscono le parole, parlano in rima o con frasi ritmate [come Omero..], e persino in lingue straniere. A volte la voce è una sola, ma più spesso i pazienti odono alcune voci diverse, e occasionalmente molte. Come nelle civiltà bicamerali [ad esempio la micenea descritta nell’Iliade], sono riconosciute come voci di dèi, di angeli, di diavoli, di nemici o di una particolare persona o parente. [..] Il paziente [..] segue solo le istruzioni che gli danno le sue voci ed è indifeso contro di loro. [..] E quando le allucinazioni sono di natura visiva, assomigliano alla scene in cui Atena appare ad Achille, o a quella in cui Nabucodonosor vede le leggi che gli compaiono davanti, o a quella in cui Teti andò da Achille, o Yahwèh da Mosè”. Analizzando decine di casi di schizofrenia, e riconoscendo l’incredibile regolarità di questi fenomeni, la conclusione che si può e si deve trarre è che le allucinazioni devono avere una qualche struttura innata nel sistema nervoso ad esse sottostante: quando si rompe il meccanismo che le tiene sotto controllo, ad esempio in caso di forte stress, le voci iniziano a parlare.
La struttura innata nel sistema nervoso è data da un cervello suddiviso in due emisferi, e dalle sue aree del linguaggio: l’area di Broca, l’area motoria supplementare e l’area di Wernicke. Ma anche se tutte e tre le aree si trovano nell’emisfero sinistro, non esiste alcuna differenza tra i due emisferi: in un bambino, la lesione dell’area di Wernicke dell’emisfero sinistro determina il completo trasferimento della funzione nell’emisfero destro. Alcune rare persone realmente ambidestre hanno sviluppato le aree del linguaggio in entrambi gli emisferi. Tutti i cervelli, dunque, hanno aree del linguaggio anche nell’emisfero destro, che però non ha gli strumenti per poter parlare verso l’esterno. I due emisferi, però, sono collegati tra loro attraverso delle commissure, bande di fibre che connettono parti del cervello. La più importante proviene dalla maggior parte della corteccia del lobo temporale, ma in particolare dalla circonvoluzione media del lobo temporale incluso nell’area di Wernicke, e poi si comprime in un tratto di poco più di 3 millimetri di diametro il quale, superando l’amigdala e passando sopra l’ipotalamo, penetra nell’altro lobo temporale. Secondo Jaynes, questo piccolo tratto di fibre lo stretto ponte attraverso il quale vennero le istruzioni che costruirono le nostre civiltà e fondarono le religioni del mondo. Il lobo temporale destro organizza, nell’area di Wernicke, il linguaggio degli dèi, che arriva fino alle aree uditive del lobo temporale sinistro, il quale ode una voce divina. Un’ipotesi folle? Sarei propenso di dire di sì, se non fosse che nel 1963 due studiosi, Penfield e Perot, decidono di stimolare l’area di Wernicke di settanta pazienti, e pubblicano i risultati sul numero 86 della rivista scientifica “Brain”, in un articolo intitolato The brain’s record of auditory and visual experience: a final summary and discussion. I risultati sostengono poderosamente l’ipotesi di Jaynes. I pazienti udirono voci, ammonizioni, consigli, provenienti da luoghi strani e sconosciuti, altri rispetto a sé: altri udirono musiche, melodie ignote che erano in grado di canticchiare al chirurgo. Alcuni sentirono la voce della madre, altri di un uomo che poteva essere loro padre e del quale avevano paura; molti intimavano alle voci di smettere di parlare o di urlare. Praticamente tutti non riconoscevano come proprie quelle voci.
Ci furono altri esperimenti condotti su una dozzina di pazienti per i quali si era resa necessaria la separazione chirurgica dei due emisferi, detta commisurotomia, tipicamente per risolvere casi gravi di epilessia. In questi pazienti i due cervelli lavorano in modo del tutto indipendente. L’emisfero sinistro sa quello che succede nella parte destra del corpo, mentre quello destra si occupa della parte opposta. L’emisfero sinistro, ad esempio, non sa cosa vede l’occhio sinistro, che comunica le sue informazioni solo all’emisfero destro.
E come si comportano questi due emisferi? Quello sinistro è razionale e cosciente come un normale essere umano; quello destro, che è comunque in grado di comprendere e risolvere problemi complicati, reagisce al mondo con grande forza e, quando può, cerca di comunicare all’emisfero sinistro il suo sdegno, la sua rabbia, il suo rimprovero. Proprio come fosse un dio. In altre parole “le differenze degli emisferi nella funzione cognitiva riflettono le differenze tra dio e uomo”. E nella storia dell’uomo, c’è un momento in cui diventa necessario che l’emisfero destro si faccia sentire: quando l’uomo, da cacciatore organizzato in piccoli gruppi di persone diventa un agricoltore e fonda comunità di centinaia di persone, dove l’attività di ciascuno non può essere gestita a “vista”: serve che qualcuno dica agli uomini cosa fare. Nasce così la teocrazia.
[..] non è impossibile che un capo potesse dominare alcune centinaia di persone, ma sarebbe stato un compito molto faticoso se tale dominio avesse dovuto esercitarsi attraverso incontri diretti e ripetuti con ciascun individuo, come si riscontra in quei gruppi di primati che conservano gerarchie rigorose.
Le prime città che l’uomo costruisce, in Medio Oriente, sono tutte caratterizzate dalla stessa struttura: una serie di piccole case disposte attorno a una struttura più grande nella quale vive il re. Gli abitanti non hanno ancora una coscienza: non sono in grado di narratizzare (cioè di raccontare una storia a se stessi), e non avevano alcun analogo io per vedere se stessi in relazione agli altri. Rispondevano, o reagivano, a stimoli, così come noi, guidando una macchina, in un’affollata autostrada a quattro corsie, continuiamo a prendere decisioni rapide ed efficaci senza avere la minima coscienza di quello che stiamo facendo. Ma come poteva trasmettersi il segnale in una comunità di due o trecento persone? Come avveniva il controllo sociale? Il re, o il capo, ordinava; gli emisferi destri dei cittadini registravano e poi, sotto forma di allucinazioni, ripetevano i comandi impartiti: e successivamente, queste voci diventarono in grado di risolvere problemi in modo inconscio, e quindi a parlare agli emisferi sinistri improvvisando, o dicendo cose che il re avrebbe potuto dire, ma che di fatto non aveva mai detto – esattamente come noi siamo in grado di immaginare un dialogo con un nostro amico che conosciamo bene. Ma cosa succede quando il re, che garantisce la coesione del gruppo, muore? Come garantire la continuità dei suoi comandi?
A Enyan [piccola città medio orientale tra le più antiche del mondo] la tomba reale – risalente al 9000 a.C. e la più antica mai rinvenuta – è una struttura notevolissima. Come tutte le case, era circolare e aveva un diametro di circa cinque metri. [..] All’interno giaceva uno scheletro sostenuto da pietre; la sua testa eretta era circondata da altre pietre ed era rivolta verso i picchi nevosi del monte Ermon.
Successivamente, non sappiamo se subito dopo o a distanza di anni, l’intera tomba fu circondata da un muro o da un parapetto dipinto con ocra rossa. Poi, senza disturbare il suo immobile abitante, grandi pietre furono disposte sopra la costruzione. [..] Sul tetto fu costruito un focolare.
[..] Sono convinto che il re morto, sostenuto in tal modo sul suo guanciale di pietre, dava ancora ordini nelle allucinazioni del suo popolo, che il parapetto dipinto di rosso e il piano superiore col focolare erano una reazione alla decomposizione del corpo, e inoltre che, almeno per un po’ di tempo, il posto stesso, e persino il fumo che saliva dal suo sacro fuoco ed era così visibile anche a centinaia di metri di distanza, erano, come le grigie nebbie dell’Egeo per Achille, una fonte di allucinazioni e l’origine dei comandi che controllavano il mondo di Enyan. Questo è un paradigma di quanto sarebbe avvenuto nei successivi otto millenni. Il re morto è un dio vivente. La tomba del re è la casa del dio, l’inizio delle elaborate case di dèi o templi [..]. Anche la formazione a due livelli della tomba preannuncia le ziqqurat a molti gradini, i templi costruiti su altri templi, come a Eridu, o le gigantesche piramidi presso il Nilo, o le ancora più gigantesche piramidi maya ed atzeche.
A questo punto, è fondamentale fermarsi per riassumere brevemente i passaggi di Jaynes. Uno: la coscienza non entra nella maggior parte delle azioni complesse che un uomo può compiere. Due: nell’Iliade, un libro di tremila anni fa, non c’è traccia della coscienza, e gli eroi sembrano mossi da voci divine.Tre: l’emisfero destro possiede aree del linguaggio in grado di comunicare con l’emisfero di sinistro, che non riconosce le voci come proprie. Quattro: il passaggio da una società di cacciatori a una società stanziale di agricoltori raccolti in piccole città richiede lo sviluppo di capacità di trasmissione dei comandi a distanza (nello spazio e nel tempo): entra in gioco l’emisfero destro. Cinque: per evitare che la morte del re faccia cessare le allucinazioni uditive innescate dalla sua autorità, la sua casa viene trasformata in un tempio visibile, che continua ad “emettere” comandi. Sei: il re morto diventa il primo dio della storia, e la società si organizza in forma di teocrazia.
Enunciata la sua tesi, Jaynes passa alla presentazione di centinaia di prove a sostegno: rilievi su roccia a Yazilikaya dove il dio Sharruma stringe in un abbraccio il suo re-amministratore Tudhaliys, la pianta della città turca Çatal Hüyük, le tombe olmeche del periodo compreso tra l’800 e il 300 a.C., gli scritti di Sahagùn, uno dei primi scrittori di cose mesoamericane, testi di incantesimi rinvenuti in Assiria, le figure o idoli mesopotamici riportati alla luce a Lagash, Uruk, Nippur, Susa e Ur, le decapitazioni dei morti durante la dinastia dei Cocom che regnò su Mayapàn attorno al 1200 d.C. e le analoghe decapitazioni della cultura natufiana di Gerico del 7800 a.C., la letteratura cuneiforme, i pittogrammi di Uruk, i dèi padroni della Mesopotamia, il rapporto tra Warad-Sin, re di Larsa, con il suo dio Enki che gli fece ricostruire un’intera città, il dio-artigiano Mummu, le cerimonie del lavaggio della bocca, il blocco di granito sul quale è riportata la Teologia menfita, Osiride ovvero la voce del re morto, il dio Khnum che plasma i re con la mano destra e il suo ka con la mano sinistra (e la lateralizzazione di questa rappresentazione), la statua di Hammurabi che riceve in forma allucinatoria i giudizi del suo dio Marduk, e le sue tavole della legge prive di qualsiasi soggettività… Pagine e pagine di storie eccezionalmente interessanti, che compongono un mosaico complesso e ricchissimo di suggestioni, e che, secondo Jaynes, dimostrano fino in fondo la solidità della sua tesi.
Ma poi le allucinazioni finiscono. E nasce la coscienza. L’ascesa dell’Assiria, brutale e crudele impero, getta nella disperazione decine di popoli. Iniziano le migrazioni. Le città vengono distrutte, i templi abbattuti. L’eruzione del vulcano di Santorini rade al suolo, con uno tsunami alto 200 metri, tutte le città lungo le coste della Grecia, decretando la fine della civiltà micenea. Le lingue si confondono.
Qualcosa deve cambiare. Ma perché la risposta a questi problemi è la coscienza? Perché avviene la transizione della mente bicamerale a una mente dotata di coscienza? Jaynes propone alcune ipotesi: l’indebolimento delle allucinazioni uditive in conseguenza dell’avvento della scrittura, l’intrinseca fragilità del controllo allucinatorio, l’inefficienza degli dèi nel caos degli sconvolgimenti storici, l’osservazione delle differenze che potrebbe essere l’origine dello spazio analogale della coscienza (concetto che mi piace moltissimo: le differenze, e non l’omologazione, hanno creato l’uomo moderno); l’epica che, raccontando relazioni tra eventi passati, porta alla narratizzazione; la necessità di tradimenti o inganni a lungo termine, che richiedono l’invenzione di un sé analogale; la selezione naturale.
E l’uomo si accorge che gli dèi se ne sono andati. Le religioni ne prendono atto. Gli déi diventano celesti, creature del cielo, che parlano poco, e solo attraverso i loro rappresentanti ufficiali. Le strutture architettoniche dei templi cambiano, diventando quasi delle piattaforme di atterraggio per gli dèi, dei quali si attende, invano, il ritorno. Iniziano i tentativi di indovinare la voce degli dèi attraverso l’interpretazione dei presagi, l’ascolto degli oracoli, le predizioni tratte dai sogni, la cleromanzia, la divinazione augurale. La scrittura cambia: l’Iliade viene seguita dall’Odissea. Ma rimane la nostalgia delle voci.
Il residuo più manifesto e importante della forma mentale di un tempo consiste nella nostra eredità religiosa, in tutta la sua labirintica bellezza e varietà di forme. L’importanza enorme della religione sia nella storia universale del mondo sia nella storia dell’individuo comune è naturalmente chiarissima da ogni punto di vista oggettivo, anche se una visione scientifica dell’uomo spesso sembra trovarsi in imbarazzo di fronte all’ammissione di questo fatto evidente. Perché nonostante tutto ciò che la scienza razionalistica e materialistica ha comportato dalla Rivoluzione scientifica in poi, l’umanità nel suo insieme non potrà mai abbandonare l’affascinata convinzione che esista una qualche relazione umana con un’entità più vasta e totalmente altra, un mysterium tremendum dotato di poteri e di intelligenze che vanno al di là di tutte le categorie dell’emisfero sinistro: qualcosa di necessariamente indefinito e oscuro, cui ci si deve accostare con timore reverenziale e meraviglia e quasi muta adorazione, anziché con una concezione chiara; e quindi qualcosa che nel nostro tempo può essere percepito in modo più autentico quanto meno lo si nomina, una configurazione del sé e del numinoso altro a cui, nei periodi della nostra angoscia più scura, nessuno di noi può sottrarsi. [..]
E sarà un caso se nella serie Westworld, che indaga proprio i misteri nascosti nel passaggio tra la mente di un robot e la mente di un essere autocosciente, molte dinamiche ricordino quanto fin qui esaminato? Né dovranno stupire, a questo punto, le allusioni all’opera shakesperiana da parte di Jaynes e Westworld nel riflettere sulla natura della coscienza. Dio è morto, e l’Uomo è nato. (n.d.r.)
Fonte: https://grafemi.wordpress.com/2012/09/21/il-crollo-della-mente-bicamerale-julian-jaynes/
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