Questo articolo parte con una piccola storia
C’è una donna.
Si chiama Marina Abramovic. Col tempo, diverrà famosa come una delle artiste contemporanee tra le più geniali e influenti. Amata e odiata, criticata e ammirata, la discussa artista montenegrina è il simbolo di un’era in cui l’arte è pensata come uno shock, destinato ad un pubblico che non resta più in disparte a guardare, ma che partecipa attivamente.
Nel 1974 Marina Abramovic mise in atto una delle sue performance più celebri: Rhythm 0.
In un video rilasciato recentemente dal MAI, il Marina Abramovic Institute, l’artista stessa rievoca l’evento in tutta la sua pregnanza significativa.
Marina ricorda la performance come quella in cui il suo corpo venne spinto al limite estremo. Non si trattava di un desiderio di morte, o di un azzardo scapestrato: si trattava di vedere, afferma l’artista, fino a che punto possono essere i spinti i limiti del corpo umano, quale potenziale energetico esso può smuovere. In effetti l’esperimento, ammette l’artista, non riguarda tanto il corpo quanto la mente: è proprio la mente che giunge a dei limiti che nessuno potrebbe immaginare.
Per questo esperimento, l’artista venne accusata di esibizionismo e masochismo.
L’artista decide di porre il suo corpo come oggetto in una stanza per 6 ore consecutive, a totale disposizione del pubblico. Nella stanza si trovano anche oggetti di natura diversa tra loro: dalla rosa alla pistola carica, dalla piuma al coltello, corredati dalla scritta: “sul tavolo ci sono 72 oggetti che potete usare su di me come meglio credete: io mi assumo la totale responsabilità per sei ore. Alcuni di questi oggetti danno piacere, altri dolore”.
Le reazioni del pubblico inizialmente sono esitanti, qualcuno la solletica, qualcuno la sfiora. Man mano che passa il tempo le persone però rompono ogni indugio e cominciano ad essere sempre più invadenti ed aggressive, approfittando della non-reazione di Marina: qualcuno le taglia i vestiti con le lamette, denudandola, qualcun altro usa le lamette per inciderle la pelle e far scorrere il sangue. Qualcun altro la ferisce con le spine della rosa, altri si lasciano andare a spinti approcci sessuali. Qualcuno di fronte a tanta violenza reagisce, cercando di proteggere l’artista, ma nonostante ciò gli istinti bestiali ormai scatenati e liberi di agire giungono all’apice della loro manifestazione: qualcuno le mette in mano la pistola carica puntata alla nuca, col dito sul grilletto pronto per azionare l’arma. Marina confesserà in seguito di aver temuto di morire.
Cosa accade alla fine delle 6 ore, quando Marina smette di porsi come mero oggetto di fronte al pubblico, e ridiventa una persona attiva, un interlocutore con cui confrontarsi? La gente fugge. Davanti alla responsabilità di quel che le ha fatto quando la considerava soltanto un oggetto, nessuno ha il coraggio di tenere la testa alta, di guardarla in faccia da pari a pari.
Questo esperimento è commentabile con una citazione di Freud: “ogni uomo ha istinti aggressivi e passioni primitive che lo portano allo stupro, all’incesto e all’omicidio e che sono tenute a freno, in maniera imperfetta, dalle istituzioni sociali e dai sensi di colpa”.
Non c’è una vera separazione tra malati psichici e sani, delinquenti e brava gente, buoni e cattivi. Ognuno è potenzialmente un criminale, un debosciato, uno stupratore, un assassino, se messo nella condizione di poterlo essere. Per questo il “disagio della civiltà” di cui parla Freud è un male minore: impedisce il reciproco assalto tra gli uomini; spostando la carica “sessuale” dall’oggetto del piacere, qualunque esso sia, a un altro ambito, la civiltà con i suoi divieti consente all’uomo di non ridursi a mera bestia che vive di istinti predatori.
Ognuno pensa di se stesso: io non lo farei mai. Io avrei la capacità, il carattere, l’animo, di decidere liberamente, o diversamente. Ma si tratta certamente di una grande illusione, come hanno mostrato molti esperimenti psicologici e sociologici, oltre a numerosi eventi storici. E non c’è nemmeno bisogno che quello stesso uomo, che così fieramente proclama la sua libertà di scelta e d’azione, venga messo sotto tortura a Guantanamo per cambiare atteggiamento. Come si è visto con l’esperimento della Abramovic, basta davvero poco: basta l’idea di non dover rendere conto a qualcuno che sia come noi, perché è considerato soltanto un oggetto; basta qualche ora di anarchia senza conseguenze civili/penali; basta l’idea di poterla fare franca perché “tanto è consentito”, o “nessuno lo saprà”. Oppure basta ricevere un ordine, come provano gli esperimenti di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità, o le riflessioni sulla banalità del male di Hanna Arendt sul dilagare della violenza nazista in una nazione colta e civile come la Germania degli anni Quaranta. Basta ricevere un ruolo; basta ricevere una maschera. A tal proposito notevoli gli esperimenti di Philip Zimbardo, che misero in evidenza l’effetto Lucifero, ovvero il repentino cambiamento che avviene nel più mite degli uomini nel momento in cui gli viene affidato un ruolo sociale.
Come ha scritto un famoso criminologo americano, “i buoni sognano quello che i cattivi fanno”.
Nel grande teatro del mondo, ognuno recita una parte dello spettacolo, convinto di farlo a “modo suo”. Eppure perché quando vengono meno i tanti bistrattati freni inibitori gli umani tendono a comportarsi tutti allo stesso modo? Perché siamo così terribilmente prevedibili?
Perché una qualsiasi persona “normale” si trasforma in un attimo, nelle giuste condizioni, in un essere ferino che meritebbe piuttosto il nome di subumano?
Una magistrale rappresentazione di queste dinamiche è presente nel crudo e amaro Dogville, film di Lars von Trier, con Nicole Kidman. Dogville è una cittadina di provincia, in cui una donna sfuggita a due killer per motivi non del tutto chiari si nasconde sotto mentite spoglie. La classica cittadina perbene, con gente onesta e pronta ad aiutare il prossimo che abbia voglia di “lavorare”, nonostante le sue pecche. Così Grace, e il nome è già un programma, viene accolta dalla brava gente di provincia dai solidi valori, cominciando a fare dei piccoli lavoretti per mantenersi la fiducia che così altruisticamente le viene concessa. Ma quando comincia a trapelare qualcosa dal misterioso e incerto passato di Grace, che sembrerebbe non avere altra scelta se non nascondersi a Dogville dal mondo esterno, gli onesti cittadini si trasformano pian piano in aguzzini, credendo di poterla ricattare. Le verrà di fatto impedito di allontanarsi dalla comunità, e diverrà la schiava, anche sessuale, di tutti gli onesti padri di famiglia e lavoratori che avevano perorato la sua causa, col beneplacito del primo accoglitore di Grace, Tom, che pretende di spacciarsi come il suo compagno. Grace tutto riceve e accetta, come Marina Abramovic durante la sua performance.
Ma una dura sorpresa attende i caritatevoli abitanti di Dogville: il padre di Grace è il più potente dei gangster, da cui la donna era scappata soltanto per questioni di principio, per sottrarsi a una vita di cui non condivideva l’ideologia di fondo. Cosa accade quando irrompe tale verità a Dogville, con l’arrivo del padre-gangster che vuole riabbracciare la figlia? Grace, adesso in posizione di forza, potrebbe perdonare e mostrare agli uomini cosa significa davvero essere umani: non approfittarsi della propria condizione per soddisfare i propri appetiti di qualsivoglia natura, vendetta, riscatto, ecc.
Ma è davvero così? No. Non è questa la Grazia. O meglio non può esservi grazia senza giustizia, grazia senza severità. Senza due pilastri il tempio crolla. Grace stermina i suoi aguzzini, risparmiando soltanto Mosè, nome emblematico del cane, l’unico a non aver abusato della sua condizione schiavile.
A questo proposito sono interessanti i dialoghi tra Grace e il padre, nella parte finale del film:
Grace: Allora qual è, qual è la cosa, la cosa che non ti piace di me?
Padre di Grace: E’ stata una parola che hai usato a provocarmi: tu mi hai chiamato arrogante Grace: Depredare di un sacro santo diritto è arroganza, papà. Padre di Grace: Ma è esattamente quello che non mi piace di te. Sei tu che sei arrogante. Grace: Sei venuto qui per dire questo? Non sono io che sputo sentenze papà. Tu lo fai. Padre di Grace: oh no! Tu non sputi sentenze perché simpatizzi con la gente. Un’infanzia di privazioni? E’ un omicidio, non è necessariamente un vero omicidio, giusto? A chi puoi dare la colpa? Alle circostanze. Stupratori e omicidi forse sono le vittime secondo te ma io, io li chiamo cani e se si lappano il loro stesso vomito il solo modo di fermarli è con la frusta. |
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Grace: Ma i cani obbediscono solo alla loro natura, perciò perché non dovremmo perdonarli?
Padre di Grace: Ai cani si possono insegnare molte cose utili, ma non se li perdoniamo ogni volta che obbediscono alla loro natura. Grace: E così sono arrogante, sono arrogante, perché perdono le persone. Padre di Grace: Mio dio. Non vedi quanto, quanto sussiego c’è in te quando dici così. Tu hai questo preconcetto assurdo: che nessuno, ascolta, che nessuno possa assolutamente avere lo stesso alto livello etico che hai tu. Così esoneri tutti. Non riesco a pensare a un’altra cosa più arrogante di questa. Tu, la mia cara figlia, perdoni gli altri con delle scuse che poi mai al mondo permetteresti a te stessa. Grace: Perché non dovrei essere clemente? Perché? Padre di Grace: No, no, no. Dovresti essere clemente quando è il momento di essere clemente. Beh devi mantenerti sul tuo livello. Devi questo alla gente. La pena che tu meriti per le tue trasgressioni loro la meritano per le loro trasgressioni. Grace: Sono esseri umani. Padre di Grace: No, no, no … certamente sai … Ogni essere umano deve rendere conto delle proprie azioni? Certamente. Ma non gliene dai neanche la possibilità. E questo è estremamente arrogante. Ti voglio bene da morire ma sei l’essere più arrogante che personalmente abbia mai conosciuto. E dici a me arrogante? Io non ho altro da aggiungere. |
Per educare un cane a essere qualcosa di più serve la frusta, non il perdono. Cinismo? Pessimismo? Arroganza? Ma non è forse più arrogante chi pretende, come afferma il padre di Grace, di perdonare l’umana bestialità appellandosi alle circostanze, con una vaga speranza in una non meglio precisata redenzione?
Prendere atto di questa bestialità da branco che ci caratterizza è il primo passo per rendersi conto di quello che siamo. Di fatto non abbiamo una nostra personalità libera e indipendente, né le nostre azioni sono regolate da decisioni razionali e individuali. Quel che emerge allo stato attuale è semplice riflesso da animale che cerca di ottenere la posizione migliore dal punto di vista acquisitivo, senza tuttavia discostarsi dal gregge. Ma ciò in realtà non tiene conto del fatto che l’animale agisce per semplice istinto, laddove l’uomo è modellato da altri tipi di forze: il condizionamento sociale e psicologico citato poco prima, che spinge ad agire secondo determinati ruoli.
Per questo motivo in alcuni contesti viene affermato che non siamo veri individui; siamo dei cloni.
In effetti, non sappiamo chi siamo. Sappiamo di essere bestiali, manovrabili e suggestionabili, esattamente come dei burattini, scialbi come fotocopie sbiadite. Eppure all’origine di una fotocopia c’è sempre un originale. Dove sarà mai l’originale? E cosa sarà mai? Ma soprattutto, può una fotocopia comprendere il suo originale?
Conosci te stesso, recitava l’oracolo di Delfi nei tempi antichi.
Cos’è un essere umano?
Il mistero più grande. Tutti pensano di conoscerlo, ma ancora nessuno, o forse soltanto pochi, sono capaci di comprenderlo.
Cliccare qui per leggere l’articolo “Bravi e Cattivi”
Valentina C.
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QUALCHE PICCOLO CONSIGLIO DI LETTURA
Fabiana Spaceintime
Bellissimo articolo Valentina, interessante quesito il tuo. Si potrebbe annoverare tra i quesiti fondamentali che segretamente (o inconsciamente) si interpone come una barriera mentale, la quale forzatamente apposta dal costume della società nella quale si opera, agisce secondo dettami stereotipati (fotocopiati) che rispondono a regole che l’individuo “accetta” senza conoscere, proprio a causa del fatto di aver subìto un condizionamento (indottrinamento) dell’analisi critica e individuale delle proprie “pulsioni”, ovviamente nascoste per non turbare la sensibilità (o ipocrisia) di soggetti terzi. Ma come si può notare dall’esperimento di Marina Abramovic, se posta sotto “l’influenza ideale” la vera Natura dell’individuo emerge, e per Vera non intendo Originale, bensì corrispondente al “reale” status quo esistente all’individuo in quell’esatto momento. Dimostrando di fatto che i comportamenti umani non sono altro che re-azioni.
virgo-lei
L’uomo è per definizione un animale sociale, cioè possiamo vivere e imparare grazie e tramite gli altri; è anche l’unico essere vivente che crea cultura e la tramanda ai posteri perchè si possano evolvere. Non possiamo prescindere da queste due funzioni che permettono la sopravvivenza individuale e della specie. Gli antropologi che hanno lavorato a contatto con le società di tipo cooperativistico piuttosto che competitivo, hanno notato che invece gli atteggiamenti di solidarietà e di compassione erano maggiormente frequenti che quelli di tipo violento, anche se inopportuni come purtroppo tanta storia ci dimostra. Questi esperimenti per me dimostrano solo una cosa: che l’uomo non può opporsi per natura alle norme culturali della struttura sociale che lo tiene in vita, a meno che non venga educato a farlo; e allo stesso modo non può opporsi alle leggi universali della Natura, che prevedono solidarietà, empatia, fuga e aggressività in egual misura e in risposta delle circostanze esterne, a meno che non venga educato a farlo.