L’idea di edificare templi sul nostro pianeta che siano lo specchio del cielo non è stata limitata all’Egitto o al Messico, ma è possibile rinvenirne evidenti tracce anche nel sud-est asiatico e, precisamente, nelle città induiste e buddiste di Angkor Wat e di Angkor Thom. La comunità scientifica tradizionale non riconosce alcuna connessione tra i monumenti indocinesi e le piramidi egiziane/ mesoamericane, ritenendo impossibile qualsiasi reciproca influenza. Tuttavia, vi è un problema che l’archeologia non ha ancora risolto, cioè quale sia la preistoria e la protostoria della penisola indocinese. Cerchiamo di fare chiarezza sulle possibili relazioni tra le civiltà più antiche del genere umano, che, per le notevoli assonanze e similitudini, possono ragionevolmente rimandare ad un’unica civiltà superrmondiale preesistente e poi scomparsa.
Innanzitutto, è necessario precisare che il termine “Angkor”, con ogni probabilità, è l’usura fonetica della parola sanscrita “nagara”, che vuol dire città e nell’antica lingua egizia equivale a “Horus vive” o “vita ad Horus” oppure anche traducibile come “Viva Horus”. Nelle tradizioni dell’antico Egitto, i seguaci di Horus erano descritti come profondi conoscitori di una sorta di “gnosi astronomica”, come dimostrano le iscrizioni geroglifiche associate ad Eliopoli, alle grandi Piramidi di Giza, alla Sfinge ed ai Testi delle Piramidi. E’ risaputo, ormai, che i predetti monumenti sembrano riferirsi, in maniera pressoché scientifica, ad osservazioni riguardanti la precessione degli equinozi che si sposta di un grado ogni 72 anni. A tale proposito, bisogna aggiungere che nessuno storico attuale ha saputo stabilire con certezza, quando è nata la convenzione matematica di suddividere le sfere e i cerchi in 360 gradi. E da tantissimo tempo la stessa convenzione era stata estesa alla misurazione della sfera celeste, con il medesimo riferimento ai 360 gradi, anche se poi con alcune varianti, a seconda delle esigenze peculiari, come ad esempio la possibilità di suddividere la sfera in due semisfere di 180 gradi, o in quattro quadranti di novanta. La sfera, inoltre, può essere anche scomposta in cinque segmenti, ciascuno dei quali misura 72 gradi di larghezza. Al di là delle evoluzioni delle cartografie moderne, che hanno avuto anche uno sviluppo di carattere politico, con il riferimento cardine al meridiano londinese di Greenwich, è stato osservato che la distanza tra la città sacra egizia di Eliopoli ed il misterioso sito di Angkor sia esattamente di 72 gradi di longitudine ad est, richiamando in maniera inequivocabile la teoria della precessione degli equinozi.
Il luogo dove è situato il comprensorio di Angkor è tuttora avvolto dall’oscurità e dal mistero. Esso si trova in un’isola dalla forma rettangolare, nel bel mezzo di una fitta foresta, dove sono stati commessi atroci crimini. Ancora oggi è possibile osservare l’ossario dove sono conservati i crani delle vittime dei terribili khmer rossi. Avvicinandosi alla città perduta di Angkor, lo scenario si presenta inquietante ed affascinante nello stesso tempo. Sulle acque trasparenti, si erge la sagoma di un’imponente piramide sulla cui sommità vi sono ben cinque torri. Angkor Wat è indubbiamente uno dei più grandi edifici in pietra dell’intero globo terrestre che, in realtà, fa parte di un’area molto più vasta che comprende al suo interno un territorio di circa 300 chilometri quadrati, ricco di tombe, di templi ed enigmatiche città dalla struttura geometrica. Osservando l’intero complesso dall’alto, anche le autorità accademiche hanno convenuto che il motivo fondamentale dell’imponente costruzione è un “mandala”, tipico esempio della cultura induista, solitamente dipinto sulla carta o sulla stoffa, oppure delineato sulla sabbia colorata. Ankgor, pertanto, apparirebbe come un gigantesco mandala, un’opera capace di unire la bellezza dell’arte ed il rigore della scienza, da utilizzare per lo svolgimento di riti sacri e per favorire la meditazione come strumento di accrescimento spirituale. Come l’esercizio mentale del “mandala” aiuterebbe l’uomo nel concentrarsi sulle forze spirituali, così il luogo sacro di Angkor fungerebbe da punto di raccolta delle forze universali, guidando gli adepti nei processi cosmici di disintegrazione e di reintegrazione. E’ noto che nella pratica buddista i “mandala” sono strumenti iniziatici volti a condizionare alcuni processi mentali, guidando i neofiti verso il raggiungimento della “gnosi illuminata”, che può essere definita come quello “stato di realizzazione o di risveglio”, in grado di condurre verso la conoscenza della verità. Come abbiamo già visto, i templi di Angkor richiamano, nel loro progetto complessivo, i “recinti geometrici” del mandala classico o dello yantra. Ma vi è un’altra importante considerazione da fare: si tratta forse di un mandala su grandissima scala che ricalca un’ampia caratteristica del cosmo? A tale proposito, è stata indicata una delle iscrizioni trionfali di Jayavarman VII, il re khmer che fece costruire Angkor nel XII secolo, in cui si legge una frase quanto mai enigmatica: “la Terra di Kambu (Cambogia) è simile al cielo”, una frase senza un’apparente spiegazione razionale e fuori dal contesto celebrativo dell’intera iscrizione. Seguendo la linea interpretativa che collega il comprensorio architettonico di Angkor all’antico Egitto, si potrebbe trattare di un riferimento alla consuetudine di costruire “modelli” sulla Terra di particolari stelle o costellazioni visibili nel Cielo. Nel 1996 un giovane studioso John Grigsby, fece una brillante scoperta, rilevando che i principali monumenti di Angkor sembrano raffigurare le sinuose spire della costellazione settentrionale del Drago, come le tre grandi piramidi di Giza in Egitto ripetono lo schema della cintura di Orione. E in più, oltre ad una pressoché fedele rappresentazione delle stelle del Drago, sembra che anche le vicine stelle di Alkaid e Kochab, che formano una linea retta con Thuban e Deneb della costellazione del Cigno, trovino una sorprendente riproduzione nella disposizione dei templi di Angkor. Alcuni studiosi, allora, hanno cercato di mettere in relazione la posizione dei templi di Angkor con quella delle stelle della costellazione del Drago, arrivando alla sconvolgente conclusione che la corrispondenza tra il Cielo e la sua copia sulla Terra non è rilevabile nel periodo della presunta costruzione dei templi, tra il il X e il XII secolo, ma andrebbe retrodatata addirittura intorno al 10.500 a.C., Tale scoperta è stata messa in relazione con quanto emerso in merito alla posizione delle Piramidi di Giza, il cui allineamento con la cintura di Orione risulterebbe retrodatabile parimenti al 10.500 a.C., e non al 2.500 a.C. circa, data in cui la maggior parte della comunità scientifica identifica come probabile della loro fondazione. Anche la struttura di Angkor ci riporta alla problematica della precessione degli equinozi, il famoso “motore” che fa ruotare il cielo con il suo ciclo di 25.920 anni, alterando con lentezza, ma con costante precisione, l’altitudine cui le stelle attraversano il meridiano. Mentre a Giza, in Egitto, erano state replicate due costellazioni, Orione ed il Leone, indicanti le direzioni cardinali sud ed est, all’alba dell’equinozio di primavera del 10.500 a.C., ad Angkor era stato riprodotto il sinuoso “Drago” che, nella medesima data, segnava la direzione cardinale nord.
Nella mitologia indiana, come del resto nei più importanti racconti dell’antichità, non vi era una netta distinzione tra l’animale raffigurato come il drago ed il serpente. Anche negli scritti biblici, il diavolo è indifferentemente identificato o come “l’antico serpente” o come “il drago”. In particolare, in ambito indiano erano presenti i cosiddetti “naga”, considerati esseri sovrannaturali che governano la terra, pur appartenendo al regno degli dei. I primi riferimenti ai naga sono stati individuati nei “Veda”, il più antico corpo di testi sacri a noi pervenuti, redatto in lingua sanscrita antica. E’ necessario sottolineare che i Veda rimandano a periodi di gran lunga antecedenti rispetto alla loro composizione, al punto che alcune tradizioni indiane affermano che essi narrano eventi risalenti a 870.000 anni fa, data in cui sarebbe stato composto il “Ramayana”, il “poema primordiale” e che tutte le versioni seguenti sarebbero state copie od imitazioni. Il primo e più grande dei naga è rappresentato dal serpente a sette teste “Sesha” (Resto) che è denominato anche “Ananta” (infinito), avvolto nelle sue spire e legato alla formazione del nostro universo attuale. Secondo l’orientalista francese Alain Danielou, al serpente primordiale si attribuisce il titolo di “Resto”, perché quando la creazione si contrae, non può cessare del tutto di essere, ma deve rimanere in forma sottile, come il germe di ciò che è stato, in maniera che il mondo possa risorgere di nuovo. Sesha, pertanto, rappresenta il ciclo del tempo che non può mai cessare definitivamente. Ed è proprio questa chiave di lettura che bisogna dare ai serpenti naga che si notano dappertutto nel complesso monumentale di Angkor. Essi sono legati alla nascita ed alla morte delle varie epoche della Terra ed all’eterna rigenerazione del tempo. Le raffigurazioni scultoree del cobra, in numerose visioni diverse l’una dall’altra, sono incessantemente ripetute nell’ambito di Angkor, al punto che alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che l’intero luogo fosse dedicato alla venerazione del serpente, da mettere in sicura correlazione con l’imitazione su scala della costellazione del Drago. Di particolare pregio è la galleria principale del tempio principale di Angkor, larga 2,5 metri e sormontata da un tetto a modiglioni sostenuto da eleganti colonne che consentono alla luce esterna di filtrare. L’ala meridionale del lato orientale presenta un autentico capolavoro, una raffigurazione di una famosissima scena della mitologia indù. Si tratta di un grande serpente naga che svolge un ruolo fondamentale: il re serpente a cinque teste è Vasuki che compie la cosiddetta “frullatura dell’oceano di latte”. Al centro del pannello il corpo di Vasuki è legato intorno ad una protuberanza con i lati appuntiti, con la cima rotonda, come simbolo del Monte Mandera, uno dei luoghi più rappresentativi della geografia sacra indiana. Si tratta di una rappresentazione cosmologica molto suggestiva da interpretare, ovviamente, in chiave simbolica e non letterale. Una parte degli studiosi si è ostinata a ritenere la frullatura del mare da parte della montagna, che ruota su un perno, soltanto come un’operazione magica e superstiziosa, in grado di favorire la prosperità e la vittoria alla nazione. Ma un’altra parte di studiosi, a partire da Coedes, ha voluto vedere nell’intero complesso di Angkor, non solo una rappresentazione in pietra dei grandi miti della cosmologia indù, ma anche la riproduzione sulla Terra di una parte almeno del mondo celeste, allo scopo di assicurare un’intima armonia tra i due mondi per il benessere dell’uomo.
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