Introduzione al “Vecchio Testamento”
Il primo ad utilizzare l’espressione “Antico Testamento” è stato l’apostolo Paolo in greco (palaia’ diathèke) nella seconda lettera ai Corinzi, una di quelle attribuite sicuramente alla sua mano da parte dei critici storiografici. Il riferimento paolino richiamava l’alleanza spesso infranta dal popolo ebraico e destinata a rinnovarsi e perfezionarsi solo con Cristo. Come è nato Paolo di Tarso, pur non avendo mai conosciuto Gesù, è il principale fondatore della teologia cristiana, coniugando tradizione ebraica e pensiero ellenistico.
In seguito, furono due autori latini, Tertulliano ed Origene, tra il II e il III secolo a.C., i primi ad utilizzare l’espressione “Antico Testamento” in maniera esplicita per riferirsi alle Sacre scritture di Isarele accettate anche dalla dottrina cristiana.
La nuova ala del Magistero cattolico post-conciliare (successiva al Concilio Vaticano II) preferisce parlare di “Primo Testamento”, significando che la storia della salvezza presenta un percorso unitario, che affonda le radici ontologiche nelle vicende del popolo ebraico.
L’attuale “Primo Testamento” accolto nella Bibbia cristiana consta di 46 libri, mentre la tradizione ebraica aveva ordinato l’orizzonte testuale dei vari libri considerati canonici ed ispirati, rigorosamente composti in lingua ebraica ed in minima parte in aramaico, secondo una classificazione tripartita ben delineata. La prima tavola di questa ideale teologia era chiamata “Torà”, che può essere tradotta con “legge” ed “insegnamento”, e comprendeva i primi cinque libri (Genesi, Esodo, Numeri, Deuteronomio, Levitico), che rappresentavano il fulcro del credo di Isarele, denominati poi in ambito cristiano “Pentateuco”. La seconda tavola del trittico era costituita dai Nebihim, i “Profeti”, a sua volta suddivisa in due tronconi: da un lato i libri storici, da “Giosué” ai “Re”, detti “Profeti anteriori”, dall’altro i libri detti dei “Profetti posteriori”, attribuibili da Amos in poi a personaggi storicamente individuabili. Infine, la terza tavola, quella dei “Ketubim”, gl “Scritti”, raccoglieva le opere sapienziali e quelle appartenenti a generi ed usi liturgici vari.
Anche la tradizione cristiana distingue un trittico, ma con significative varianti. Al primo gruppo appartengono il Pentateuco ed i libri storici da Giosuè fino ai Maccabei, includendo anche testi scritti in greco e chiamati deuterocanonici, come Tobia, Giuditta ed i libri dei Maccabei. Nel secondo gruppo sono inseriti i libri sapienziali che contengono riflessioni intimistiche sulla storia della salvezza, estendendosi anche a due libri scritti in greco, Siracide e Sapinza. Il terzo gruppo è rappresentato dalla voce dei “Profeti”, con la sequenza da Isaia a Malachia, e l’aggiunta di Baruc, assente nella lista canonica ebraica.
L’Antico Testamento è stato paragonato, anche con le sue brutture, contraddizioni ed i suoi passi sconcertanti (vedansi le efferate violenze del libro di Giosuè o la norma di lapidare le ragazze non vergini del Deuteronomio), ad una cattedrale cosmica, un’immane costruzione simbolica che racchiuderebbe la rivelazione segreta del Creatore.
Nella Genesi entra i scena ha-adàm, l’uomo, con i suoi dilemmi morali nel confronto con l’albero della conoscenza. Se ne ricava una riflessione simbolica sull’essere umano, straordinariamente lucida per una penna di quell’epoca storica, che si sofferma sulle antitesi tra determinismo e libero arbitrio, coniando il concetto di “peccato” ed evidenziando le particolarità e le miserie dell’essere umano, tentato da un personaggio tanto importante quanto misterioso nelle sembianze del “serpente”. Anche il Magistero della Chiesa cattolica, che per secoli ha attribuito significati letterali ai primi libri della Bibbia, ha dovuto accettare la “teoria dei generi letterari”, riconoscendo il valore simbolico e didascalico di determinati testi sacri. Sarebbe stato oltremodo controproducente ed anacronistico perseverare nelle negazioni delle scoperte scientifiche in un contesto sociale e culturale contemporaneo, dove le informazioni sono sempre più velocemente conosciute e diffuse in maniera globale.
Con Abramo si apre il periodo patriarcale ed ha origine il piano di salvezza di Dio che cerca di salvare l’uomo dal peccato. La figura di Abramo rappresenta la fede cieca ed obbediente, in vicende perennemente rischiose ed incerte, fino al sacrificio del figlio primogenito, sventato all’ultimo momento da un messaggero di Dio (almeno nella versione a noi pervenuta; potrebbe darsi che nelle primitive elaborazioni Isacco fosse effettivamente immolato, come da usanze tribali dell’epoca).
In seguito Giacobbe, discendente di Abramo, combtterà con Dio, testimoniando l’ardua impresa del mistero della fede e della fedeltà a Dio.
Ma il grande evento, destinato a diventare uno dei punti cardine della religione ebraica e ad essere citato in tutti i memoriali liturgici posteriori, è quello dell’Esodo dalla schiavitù d’Egitto, con il paradigma pasquale del Mar Rosso ( tramandato come tale erroneamente ed esageratamente, trattandosi invece dell’attraversamento di una zona paludosa).
Grande fortuna ed importanza assunsero, poi, i “Profeti”, durante il periodo della deportazione babilonese, quando il popolo ebraico prese consapevolezza della propria identità e, sotto l’influsso di civiltà più evolute, iniziò la codificazione scritta della “Torà”, per lo più fino ad allora tramandata oralmente, e con l’istituzione del “Tempio” elaborò le prime celebrazioni liturgiche.
I “Profeti” non evono essere onsiderati coloro che magicamente prevedevano il futuro, come invasati da una forza misteriosa, ma come coloro che, nel groviglio delle vicende umane, cercavano di individuare il filo conduttore dell’azione divina, interpretando con lucidità e raziocinio i fatti del presente, proiettandone le conseguenze in un ragionevole futuro.
Il Monte Sinai si impone in tante pagine bibliche: dalla sua vetta scende la parola di Dio, che nel decalogo affidato a Mosè, trova la sua espressione più incisiva, pietra miliare della cristallizzazione dei principi fondamentali del diritto naturale.
E qualche secolo dopo, conquistata la Terra di Canaan, per il popolo di Israele inizia la difficile stabilizzazione di uno stato, mentre la figura del re Davide diventa un tangibile segno del Messia, che vuol dire “unto”, “consacrato”, spianando la strada alla pienezza salvifica del “Nuovo Testamento”. Se Davide prefigura il Messia, Salomone rappresenta una nuova visione religiosa, quella sapienziale, cioè una spiritualità interiore più sofferta e maggiormente influenzata dalla cultura greca, che si interroga sulle malattie interiori e sul significato dell’esistenza dell’essere umano.
In sintesi il Vecchio Testamento, di cui abbiamo dato solo brevi cenni introduttivi, è una grande metafora dell’uomo, non teorica e nemmeno teoretica, bensì costruita in maniera esistenziale, attraverso cioè le difficoltà e le peripezie di un popolo.
Le interpretazioni e le ricostruzioni storiche dei suoi passi sono ancora in gran parte indecifrabili: in futuro ci potranno essere nuove scoperte in grado di fare chiarezza su tanti elementi oscuri e controversi.
Forse il linguaggio simbolico della Bibbia sarà compreso solo tenendo in debito conto il progresso scientifico?
Luigi Angelino