Sono stato un viandante per sentieri sconosciuti. Ora ritorno a casa.
Premessa
Tutte le cose che compiono un giro intero, quando riappaiono anche dopo lungo tempo, sono le stesse che l’hanno iniziato. Ritorna il sole ogni mattina, ed è lo stesso. Dopo la falce di luna calante che ad oriente si assottiglia sempre più e poi scompare, si presenta l’altra metà ad occidente e cresce fino a diventare luna piena, ed è sempre la stessa. Alla fine della precessione degli equinozi, un giro cosmico lungo 25760 anni solari, ritorna la costellazione che l’ha iniziato l’Acquario. Uguali alle precedenti anche le altre che seguiranno quando instancabilmente le riporterà l’eterno girotondo universale. Quando si compirà il celeste giro − ha detto Platone −, anche la Storia umana riprenderà da capo con i protagonisti di allora, che ripeteranno le stesse imprese, ed ha chiamato quel cerchio cosmico rotante Anno perfetto. Come i pianeti e le stelle, anche le piante e gli animali che ritornano dopo un giro sono gli stessi e non altri come normalmente si crede: così hanno intuito poeti e filosofi. Per John Keats, l’usignolo che egli ha udito all’età di ventitré anni in un giardino di Hamstead è lo stesso che migliaia d’anni addietro, nei campi d’Israele, allietò con il suo canto Ruth la moabita. E per Schopenhauer il gatto che stava giocando sotto i suoi occhi era lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni prima. Dunque tutti ritornano alla fine del loro giro in cielo o nella vita: pianeti, stelle, costellazioni, piante, animali, e sono gli stessi; ma c’è un’eccezione. C’è chi non sembra godere di questo privilegio ed è proprio l’uomo l’escluso, colui che invece vede o intuisce il ritorno degli altri. Di se stesso, infatti, ha detto e dice: non so da dove vengo, chi sono, dove vado. Eppure, fino ad un certo punto non è diverso dagli animali perché ha un corpo fisico simile al loro, perciò dovrebbe affermare di sé quel che ha intuito dell’usignolo e del gatto: che anche lui ritorna ed è lo stesso. Infatti, se ne parla, ma solo in generale, come membro della specie. Mentre qui è il singolo che conta e lui normalmente non sa di sé. Né ha trovato finora, quando è emerso dal nascosto, indicazioni chiare e distinte che gl’insegnassero da dove è giunto e dove va. Così è presente, di volta in volta, solo in una vita. Invece se si volgesse anche alle altre sapendo che ci sono, come fa con le veglie passate dove non basta il sonno a scollegarle, gli apparirebbe la collana d’esistenze, al cui confronto quella singola che sta vivendo è solo una perla isolata e strana. Cos’è, allora, che non permane del singolo negli eterni girotondi della vita? È l’Io penso, la coscienza, la soggettività. Non ritorna cioè l’abitante di un corpo animale, il quale invece nei modi della specie ripete instancabilmente se stesso. Almeno fino ad oggi l’Io non è mai tornato, o meglio non ha mai percorso tutta intera la via della conoscenza a mente sveglia, essa non è mai diventata chiara e distinta per tutto il giro; perché in altri modi, come nella metempsicosi, casi ce ne sono stati di ritornanti che non hanno dimenticato completamente le passate esistenze. La chiesetta sperduta − che sarà in seguito qui pubblicata − è il racconto del ritorno in tal modo. Afferma che per la prima volta il giro della vita umana è stato possibile compierlo per intero in modo consapevole. Perciò questo risultato è già stato raggiunto; ma, a quanto sembra, qualcosa mancava ancora ad un tal suggello se dopo sono apparsi i segnali intitolati Il tempo e l’eternità. Mancava la dimostrazione del passaggio dal tempo all’eternità, conseguenza dell’attraversamento dell’Abisso, e le indicazioni e i loro commenti fra poco la svolgeranno.
Prima indicazione:
In verità il tempo non c’è nei suoi tre modi,
vale a dire passato, presente e futuro.
Non c’è questa strada di tempo
che parte da un punto indecifrabile
e arriva ad un altro altrettanto misterioso.
C’è piuttosto il viaggiatore
che percorre una via sconosciuta,
la quale poi all’improvviso
termina sul ciglio di un abisso.
Ed è l’abisso che suggella
la forma della strada e la misura:
con un tratto già percorso, cioè il passato,
un misterioso e instancabile passaggio
ad ogni passo che è il presente,
e un altro tratto da percorrere
che si chiama futuro.
I tre modi del tempo, passato, presente e futuro, sono quelli normalmente in uso. Valgono certamente per gli uomini: siamo noi che ci muoviamo da un inizio, la nascita, e si procede verso una fine che viene sempre raggiunta anche se non si vorrebbe mai arrivare. Il tratto già percorso lo chiamiamo passato, poi c’è un continuo attraversamento e il punto dove avviene è il presente, mentre quel che ancora rimane a percorrere ha nome futuro. Il tutto per l’uomo d’oggi ha una durata media di circa ottant’anni. Ci sono anche tragitti più lunghi, quelli delle civiltà per esempio. Si tratta di millenni in questi casi, ma anche per essi usiamo lo stesso criterio di misurazione e gli stessi nomi, e così anche per ogni altra cosa che appare, si muove e scompare in cielo e in terra: pianeti, stelle, comete, minerali, piante, animali. Dunque, passato, presente e futuro sono i nomi e aspetti del tempo che corrispondono alla nostra attuale conoscenza ed esigenza e vengono continuamente e comunemente usati in ogni occasione e circostanza. Ma ora il cartello apparso afferma invece che non ci sono e che perciò una strada di tempo così fatta davvero non c’è. Non c’è perché era solo illusione e fantasia, e ad un certo punto è scomparsa lasciando il posto ad altro, oppure non è mai esistita? Non c’è più, come una fiamma che si è spenta, come le impronte sulla sabbia che il mare ha cancellato, è la risposta che appare più adatta. Ma ora devo motivare questa mia scelta: perché ad essa sono arrivato dopo lungo tempo durante il quale ho aspettato senza mai intervenire in modo diretto e invadente. Perché io ormai non voglio più le cose, vale a dire non le cerco più per terre, mari e cieli, ma fermo nel punto dove inizio e fine coincidono, in questo caso dove la chiesetta celeste e quella terrestre si sono incontrate e unite, aspetto che giungano, che arrivino alla presenza. Una posizione simile o uguale a quella descritta da Marco Aurelio, Agostino, Nietzsche, Severino. Per il primo, “Chi ha visto il presente ha visto tutte le cose: quelle che furono nell’insondabile passato, quelle che saranno nel futuro”. Per Agostino, “Solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Si, questi tre sono in un certo senso nell’anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l’aspettativa”. Nietzsche è arrivato fin dove passato e futuro s’incontrano e coincidono e ha chiamato “Portone carraio” quel punto. Per Severino le cose, gli uomini, le loro azioni, anche le più piccole e insignificanti, non arrivano dal nulla e finiscono nel nulla, ma come le stelle e le costellazioni appaiono e scompaiono e chi si trova nel punto adatto e nel momento propizio − il presente eterno −, le vede continuamente arrivare, apparire e scomparire. Dunque sono arrivato alla conclusione che il tempo con i suoi tre aspetti, come l’abbiamo inteso e ancora oggi l’intendiamo, non si può dire che non è mai stato, perché anzi così è ancora per la stragrande maggioranza e in tale veste viene usato, ma più semplicemente che esso, dopo l’attraversamento dell’Abisso, la scoperta della coincidenza degli opposti e del segreto della Porta, e l’uscita dal cerchio chiuso dell’eterno ritorno, appare superato, come le mappe del cielo stellato prima delle scoperte di Galileo e Newton. Infatti, è nel punto dove passato, presente e futuro si sciolgono come neve al sole e il tempo muta in eternità, che l’indicazione è apparsa. D’altronde basta volgersi a guardare perché anche il più piccolo dubbio scompaia: l’intera via è diventata un cerchio, e in un cerchio − come ha detto Eraclito − “Il principio e la fine stanno assieme, sono lo stesso”. In altre parole non c’è più l’inizio casuale e l’arrivo quando ad altrui piace. Inoltre il cammino non è più un tratto o un arco sospesi nel nulla e non c’è una sola direzione di marcia: si può arrivare all’inizio anche tornando indietro, sostegno che si è rivelato indispensabile per la riuscita dell’attraversamento dell’Abisso, come ho raccontato ne La chiesetta sperduta, parte seconda, paragrafo 13. È di fronte a questa maggiore evidenza, all’intero che prima era nascosto e misterioso in tanta parte, che gli aspetti della via percorsa dai viventi umani che sembravano “oggettivi” hanno perso consistenza diventando sempre più vaghi e indistinti, fino a scomparire dove gli estremi s’incontrano e coincidono. L’indicazione però, come ben si vede, non finisce qui. Dopo i primi cinque versi che nominano la “strada di tempo” − anche se per affermare che non c’è più, o che è solo illusione −, essa continua rivolta a chi quella via percorre. Per cui, allora, c’è conferma che qualcosa c’è, se non si può cancellare il viaggiatore ed egli è tale perché ha seguito un cammino. Che cosa? I versi che seguono suonano così: “C’è piuttosto il viaggiatore/ che percorre una via misteriosa,/ la quale poi all’improvviso/ termina sul ciglio di un abisso./ Ed è l’abisso che suggella/ la forma della strada e la misura,/ con un tratto già percorso, cioè il passato,/ un misterioso e instancabile passaggio/ ad ogni passo che è il presente,/ e un altro tratto da percorrere che si chiama futuro”. Dicono allora i versi che la strada su cui il viaggiatore si trova gli assomiglia, vale a dire ha i suoi aspetti e limiti. Ma cosa sia davvero egli non lo sa perché ne percorre solo un tratto insignificante; e soprattutto perché cessa all’improvviso e lui precipita. Una via così è perciò soltanto qualcosa che egli racconta ricavandolo dalla sua instabilità, insicurezza, precarietà. Perciò il mio commento che in precedenza assegnava a quel cammino una qualche oggettività, ora l’indicazione sembra escluderla completamente. Per davvero non c’è una strada di tempo divisa in tre parti distinte: passato, presente e futuro; ma solo il viaggiatore che crede di procedere in tal modo come su un percorso a lui assegnato misteriosamente, ed è soprattutto l’abisso dove precipita che “suggella” in modo definitivo tale forma e misura. Si ritorna così alla sua natura di sogno, con le caratteristiche che si assegnano a quel che in tal modo appare: vacuità, misteriosità, illusorietà. Un sogno o incubo lungamente ripetuto però e da tutti i viventi, finché ha acquistato stabile dimora nella veglia e perfino nella luce della ragione, diventando misura universale di tutte le cose che albergano in cielo e in terra.
Seconda indicazione:
È il viaggiatore il titolare di quest’aspetto della via a senso unico, con un inizio e una fine misteriosi, dove è gettato a sua insaputa e tolto anche se non vuole. Ma la terra è sferica e gli astri ruotano nel cielo mentre la parte cosciente del viaggiatore s’accende e si spegne prima di un giro.
Nei primi sette versi viene ribadito quel che è già apparso nella precedente indicazione: il carattere fantasmagorico della via; quello che gli assegna il viaggiatore quando dice di essa che ha un inizio misterioso e una fine inevitabile e crudele, che il cammino che ha percorso è irrecuperabile e lo chiama passato, e quello che rimane è incerto, pericoloso, a tempo determinato, perché finisce sempre nell’abisso. Poi però altre vie che non hanno quella precarietà e limitazioni cominciano a presentarsi. Sono quelle sulla rotonda terra che riportano sempre al punto di partenza se le si percorre fino in fondo. Se si segue il cammino tenebroso, per esempio, quello della notte o del sonno. Oppure la via delle stagioni che riporta i fiori anno dopo anno, e i percorsi circolari degli astri. È chiaro in che consiste la loro maggiore evidenza e consistenza: nella loro natura di giri interi e di ritorni eterni, che risaltano ancor di più ora che si confrontano con il cammino dell’uomo che appare illuminato solo per un breve tratto. La luce è la coscienza, ma essa − dice l’ultimo verso – “s’accende e si spegne prima di un giro”. A questo punto sembra farsi avanti la causa dell’andare misterioso e oscuro del viandante: perché non riesce ad illuminare tutto il suo cammino mentre, da spettatore, può invece vedere da fuori o dall’alto i percorsi completi delle piante, degli animali, dei pianeti e le instancabili ripetizioni. Nel suo girone perciò è un internato. Dentro il giro significa lungo il suo svolgimento, parte di esso. Quindi non l’ha percorso tutto, o meglio non l’ha visto e compreso tutto; perché in ogni caso il giro lo porta a termine e ci pensa la natura a trasportarlo dove per lui c’è solo oscurità e mistero. Il circolo c’è sempre, insomma, ma gli è noto solo il tratto che percorre ad occhi aperti e mente sveglia, quello, in altre parole, da quando viene alla luce a quando ritorna nelle tenebre. Da ciò si deduce quel che dobbiamo cercare e trovare: la rotondità della vita. La quale, come si sa dalle pagine precedenti, è stata raggiunta; ma ora è dal versante del tempo che si guarda. La rotondità della vita − oltre che nella natura dove è giorno e notte, veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte −, ha come tratto diurno anche la Storia dell’Occidente, che è iniziata con Erodoto e Tucidide, ed è giunta al Tramonto più di un secolo fa. Questo è lo svolgimento più lungo e vasto che siamo riusciti ad esprimere e segnalare, e si tratta di un percorso progettato e costruito nella luce della ragione; ma provenendo da altro, tuttavia, ed entrando in altro. Giungendo dal lato oscuro e rientrando in esso dopo un tratto di cammino. Storia perciò è un altro nome del semicerchio diurno dove il viaggiatore entra e viene tenuto acceso anche da lui. E qual è il tratto che ogni vivente illumina? Soprattutto quello che va dalla nascita alla morte dove questi due momenti sono segnati e poi quelli più importanti della sua vita e della sua opera. Ma può andare indietro seguendo la via comune e generale anche fino all’inizio della Storia, e prevedere la fine e viverla nel modo della conoscenza chiara e distinta, com’è capitato a chi scrive. Può arrivare ormai fin dove coincidono fine e inizio e anche all’uscita dall’ultimo cerchio che per alcuni è ormai prigione. Rare finora le evasioni e perlopiù dovute al caso. Questa è l’indicazione più importante che spero di lasciare in eredità. Negli ultimi due versi è detto chiaramente chi è l’autore del racconto della via che, in modo comune e pressoché generale, finora è conosciuta solo come tratto o curva: “è la parte cosciente del viaggiatore”. È colui che vorrebbe sapere perché ci troviamo in tale stato d’indigenza e precarietà, dove siamo gettati e tolti, e nel tratto da quell’inizio a quella fine in tanti modi quasi trascinati. D’altronde costerebbe troppo il ribellarsi mettendo fine prima del tempo all’insensato procedere, perciò si accettano supinamente i comandi della natura i cui fini sono imperscrutabili, accontentandosi di quel che ci dà in cambio: ci affascina con i suoi spettacoli, ci paga con la soddisfazione dei sensi e il piacere della carne; anche se alla fine, raggiunti i suoi scopi, ci mette da parte con le malattie e la vecchiaia e poi ci elimina. Oppure la natura ci ha portato fino al campo base e lì finisce la sua opera, ma da quel punto ora il solitario può partire. Una luce perciò molto limitata quella del viaggiatore, che illumina e misura antichi cicli da cui è uscito in epoche remote, ma non dall’ultimo dove ora si trova. Di esso è visibile soltanto un tratto, come ciò che appare nel cerchio luminoso di una lampada che il viaggiatore tiene accesa nella notte.
Terza indicazione:
Se si supera l’Abisso invece tutto cambia:
si arriva nel passato passando per il futuro.
A questo punto però i nomi delle due vie
si contraddicono ed oppongono.
Come si può secondo la ragione
che afferma che il tempo procede in un verso solo
arrivare al passato dal futuro,
e come può il passato, che per noi significa
che non c’è più, essere ancora?
Sarebbero degli ex quei nomi: ex via del futuro
ex presente, ex via del passato.
Il tempo che ha nomi, numeri e misure è quello della vita di un uomo, di un popolo, di una civiltà. Ma si tratta in ogni caso di scampoli di tempo che compaiono nell’immutabile ed immobile.
Tempo nei tre modi conosciuti è perciò scia di vita che appare nell’eterno, come quella di un aeroplano dentro il cielo.
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