E’ opportuno precisare che il grappolo gode, secondo l’età e la storia personale dell’individuo, di diversa “fluidità”
Ciò rende conto del c.d. moto interno, ossia del fatto che le Monadi, sempre tramite i Golem, sono in continuo movimento.
Questo stato di cose è responsabile di due fatti fondamentali:
- il sonno nel quale versano i viventi durante l’intero corso della loro esistenza;
- l’assenza nei viventi medesimi di una volontà vera.
Il sonno è determinato dal fatto che l’individuo vive costantemente nell’illusione di un’inesistente unità di coscienza.
In forza della “coerenza”, ogni Golem che accede al controllo (momentaneo) della Totalità restituisce a questa (attraverso il luogo fra gli occhi) l’illusione di un’esistenza senza soluzione di continuità. In realtà, è la struttura stessa della Totalità a spezzare l’esperienza in tante parti quanti sono i Golem interessati, in modo che ognuno di essi trattiene una parte dell’esperienza medesima.
Ciò e a fronte ad esempio del fatto che, esaurita l’esperienza, due Golem potrebbero anche non comunicare più fra loro per molto tempo (o per sempre), impedisce una percezione totale dell’esperienza determinandone, anzi, una vera distorsione, una sostanziale incomprensione.
Incomprensione che l’individuo cerca di compensare tramite l’esercizio dell’attività fantastica, ossia inventandosi di sana pianta interi tratti di vissuto andato perduto solo perché, magari, alcuni Golem leggono l’esperienza in modo diverso da altri o, anche, perché la medesima esperienza è accettata da alcuni e rifiutata da altri.
In effetti, la mente non può accettare la non-uniformità dell’esperienza in quanto questo negherebbe la sua stessa unità. Per questo ricorre all’attività fantastica, per riempire i buchi presenti nel ricordo dell’esperienza e dovuti alla propria stessa struttura.
Ciò non contraddice il principio di coerenza perché questo non fa altro che costringere tutti i Golem (e tutte le Monadi) a sentirsi parte di una certa Totalità, non coinvolgendo l’essenza della singola Monade o del singolo Golem; ne consegue che entrambi rimangono liberi d’esprimersi per quel che sono.
Al contrario, questo rende conto dell’incoerenza e della contraddittorietà che tanto spesso informa il comportamento dei primati.
Piuttosto, teniamo presente che, essendo “l’intero maggiore della somma delle sue parti”, la Totalità intesa nel suo insieme ricava, in forza dell’attività cerebrale, la complessiva impressione d’unità. In effetti, tutto questo funziona proprio per l’esistenza del supporto fisico.
La presenza del soma e, al suo interno, del cervello rende formidabile l’illusione dell’unità perché questa, bramata dalla mente a qualsiasi costo, è cementata sia dalla presenza costante, almeno durante la veglia, del cervello, sia dal (parzialissimo) controllo che il cervello medesimo riesce ad esercitare sul corpo. Durante la veglia, quindi, i Golem che si avvicendano alla guida della Totalità s’identificano completamente con il corpo e grazie a quest’identificazione trasmettono alla mente (il nostro piccolo tiranno) l’impressione d’unità. Chiamiamo questo sonno strutturale poiché per effetto di quanto sopra la coscienza dell’individuo durante l’intero periodo di veglia (e ancor di più durante il sonno fisico) appare fortemente frammentata fra i numerosi Golem che possono avere avuto accesso alla guida della Totalità durante la veglia stessa. In effetti, più il moto interno è grande, più l’intera personalità sarà instabile secondo una varietà di gradazioni che andranno dalla c.d. normalità agli stati più disturbati, alle nevrosi più gravi e alle psicosi (anche se qui i meccanismi interessati sono, sotto un certo aspetto, diversi).
Il moto interno, quindi, è il movimento dei Golem dentro la Totalità ed è determinato sia da forze endogene (di natura psichica), sia da sollecitazioni esterne (le situazioni di vita).
La meditazione non fa che ridurre al minimo, tramite il silenzio interiore, il moto interno cercando di mantenere il Golem Osservatore nel “luogo in mezzo agli occhi” per il maggior tempo possibile. Quando questo tempo diviene abbastanza lungo da permettere una sufficiente concentrazione del livello d’attenzione accadono miracoli, giacché il Golem riesce a passare il “valico oscuro” oltre il quale è ciò che gli occultisti chiamano Risveglio.
L’altro fatto esiziale determinato dalla struttura a grappolo è, come detto, l’assenza nei viventi di una volontà vera. Avendo ogni Monade una propria volontà elementare e potendo, nonostante il principio di coerenza, tale volontà essere orientata in una direzione qualsiasi (direzione determinata dall’essenza specifica d’ogni Monade, ovvero dalla tribù d’appartenenza) è chiaro che la Totalità avrà tante piccole volontà quanti sono i Golem che la costituiscono. In termini concreti e nella logica di un vissuto “normale”, la volontà di una Totalità sarà costituita dalla sommatoria di tutte le singole volontà presenti in ogni Golem (e, ovviamente, in ogni Monade). E’, altresì, chiaro che tali singole volontà saranno, di volta in volta, caratterizzate da diversa direzione (a favore, contro o neutra) in relazione alla valenza emotiva della specifica esperienza. Questo vale per il singolo Golem, ma vale anche per l’individuo nel suo insieme giacché, quale che sia il numero dei Golem interessati all’evento, il risultato cambia in modo del tutto casuale.
L’implicazione di quanto sopra è sin troppo evidente: l’assenza di una Volontà Vera e, di conseguenza, la negazione del libero arbitrio.
Il libero arbitrio non esiste giacché qualsiasi scelta è sempre predeterminata dalla psico-economia della specifica Totalità interessata alla scelta medesima (psico-economia ampiamente prestabilita dal patrimonio monadico e, anche se in misura minore come vedremo in seguito, dal processo educativo).
L’argomento non è nuovissimo, tuttavia un po’ di retorica a questo punto può tornare utile.
Pensate davvero che Giuda, se avesse potuto scegliere, avrebbe egualmente tradito Cristo? Come ho già avuto occasione di rilevare altrove e a parte le considerazioni soggettive sull’assurdità della scelta di qualcosa d’abbietto come il tradimento, sarebbe curioso un Dio che si gioca l’intero disegno di creazione e salvazione dell’uomo su un lancio di dadi (la scelta di Giuda Iscariota).
Già, poiché sul piatto non c’è per nulla la scelta di Giuda bensì qualcosa di infinitamente più grande: c’è il sacrificio di Cristo che, senza il tradimento di Giuda, forse non si sarebbe verificato…o, forse, si sarebbe verificato in forma diversa.
La verità è che sostenere la presenza di una volontà vera in Giuda ci mette in scacco, poiché ci costringe ad ignorare qualsiasi considerazione sulla Volontà di Dio, sulla Sua onniscienza e onnipotenza, chiudendo in modo acritico ogni discorso sul tema.
Viceversa, se evitiamo di dare per scontata l’esistenza di una vera volontà in Giuda allora tutto cambia, perché questo ci permette d’interrogarci seriamente sull’eziologia del tradimento.
Dunque, se in virtù dell’onniscienza Dio sapeva che Giuda avrebbe tradito Cristo allora la scelta di Giuda appare necessariamente predeterminata. Non solo, sembra logico pensare che il tradimento sia anche voluto da Dio perché elemento necessario al dramma e, quindi, perfettamente funzionale al Suo disegno: la redenzione dei nostri peccati attraverso il sacrificio del Figlio.
Ammettere il contrario ci farebbe, se non altro, pensare ad una volontà divina dicotomica…ad un Dio doppio…in effetti, l’argomento è interessante, tanto da meritare un approfondimento. Magari durante il seguito.
Torniamo alla Totalità, alla sua struttura e, soprattutto, alla sua funzione.
Se taluno riuscisse a vedere la Totalità ne ricaverebbe l’immagine di un uovo luminoso. Un lucente Cocoon che ingloba tutto ciò che costituisce la Totalità stessa e che, nel frattempo, ne fissa i limiti estremi.
Ora, abbiamo affermato che la ragione per la quale l’uomo esiste è la produzione di consapevolezza, ossia di una cosa che risulta fondamentale all’economia della Creatura perché Le dà modo di credere di poter crescere indefinitamente.
La Creatura teme la propria morte e per sfuggirle attua una tecnica precisa: cerca di differenziarsi. Per questo a Sua volta “sceglie” l’uomo, per soddisfare tale esigenza primaria di differenziazione. Essa desidera fuggire dal Pleroma, dall’Eterno Indifferenziato che minaccia di riassorbirla. E fa ciò delegando all’uomo stesso il compito di aumentare la Sua consapevolezza tramite il completo spiegamento di quel processo che noi chiamiamo vita.
Perciò, la Creatura, d’ora in avanti Abraxas (intendo con tale termine ciò che è venuto a esistenza il momento successivo alla Creazione, al Big-Bang.), “crea” l’uomo perché questo produca il nutrimento necessario alla Sua crescita. Sotto questo profilo possiamo pensare la vita come un processo controllato e il mondo (ma questo, in realtà, vale per l’intero cosmo) come ad un gigantesco Vaso Alchemico dentro il quale il suddetto processo si svolge. Il meccanismo è semplice ed efficace ed è indicato dalla formula alchemica Solve et Coagula.
Dobbiamo pensare alla vita come ad una pozza di luce liquida immersa nel nero più totale. La pozza è incapsulata dentro al nero, ossia dentro all’Indifferenziato (ciò che sino ad ora abbiamo chiamato Pleroma) e questo preme su di essa nel tentativo di riassorbirla.
La pressione è costante ma, per effetto della resistenza opposta dalla pozza, genera all’interno della pozza medesima un riscaldamento (solve, espansione) seguito da un raffreddamento (coagula, contrazione).
In sostanza, quando la pozza espande reagisce alla pressione e quando si contrae cede alla pressione. Nel primo caso il calore aumenta e la materia (il lemma è da intendere nel senso più lato che vi sia possibile) è sciolta, nel secondo caso è indurita per effetto del raffreddamento. Ciò produce necessariamente un cambiamento nella materia medesima. Nel complesso un’evoluzione, senza dubbio.
In realtà, quella appena descritta è l’immagine di Abraxas tuttavia, secondo l’antico insegnamento “Ciò che è sotto è come ciò che è sopra” (Ermete Trismegisto, Tabula Smaragdina.”Quod est inferius, est sicut quod est superius”), tale schema vale sia per il titanico Multiverso, sia per l’uomo, essendo questo fatto “ad immagine e somiglianza” del suo creatore.
Da quanto detto dovrebbe apparire evidente che il Pleroma è ciò che noi conosciamo come Morte, in altre parole quella forza invincibile che pone fine all’esistenza dei viventi.
Tuttavia, è più corretto pensare alla Morte come a una funzione del Pleroma, giacché il Pleroma medesimo non può, poiché Eterno Indifferenziato, essere ridotto in alcun modo ad una qualsiasi grandezza agente all’interno della Creatura.
Dunque, dalle “pareti interne” del Vaso Alchemico Cosmico (i confini della Creatura, così come della Totalità) si sprigiona la forza della Morte come funzione della pressione del Pleroma sulle “pareti esterne” del Vaso stesso. Ciò avviene sin dall’inizio dei tempi; questo significa che è dal primo istante d’esistenza della Creatura che la lotta fra Morte e Vita è in atto. Torneremo sul punto.
Per il momento è sufficiente ricordare il seguente passo:
“per innumerevoli eoni Abraxas fu solo nel Pleroma. Non che avesse bisogno d’altri ma accadde che, a un certo punto, sorse in lui il dubbio che la propria eternità non fosse poi una qualità così scontata. Era accaduto, infatti, che Egli avesse preso a ragionare intorno al Pleroma e alle sue qualità, per questo iniziò a temerlo. Abraxas così rifletteva:
– che so io del perché sono stato creato? Che so io di che cosa abbia indotta in mio Padre la lacerazione che mi ha permesso di venire ad esistenza? Tutto ciò potrebbe rispondere a un disegno nascosto il cui epilogo potrebbe coincidere con la mia dissoluzione.
Nessuno può comprendere quale angoscia generasse da una tale idea. E tuttavia fu da quell’incommensurabile sofferenza che scaturì il primo pensiero di libertà, ossia ciò che noi chiamiamo con il nome di Baphometto. Ed il secondo: l’uomo” (Cyril Grey – Simon Iff, Le Avventure di Otario Sprants, stampato in proprio, 1992).
Dunque e ad un certo punto (viene da pensare nel momento in cui la consapevolezza di Abraxas valica confini precisi), l’uomo (del Baphometto, altrimenti chiamato Testa, diremo più avanti) è “pensato/creato” in forma di Sacro Favo destinato a riempirsi di consapevolezza e, sulla scorta di un semplice patto, è messo nel mondo.
Dall’istante in cui la prima scimmia riceve dal Fungo l’energia sufficiente per “cambiare livello” (vorremmo dire dal momento in cui Eva mangia del frutto dell’Albero) il dramma divino ha formalmente inizio, ossia l’uomo comincia ad assolvere il compito per il quale è stato creato. E’ qui, in questo preciso istante, che Abraxas gioca la sua carta più forte. Egli sa che quando il Fungo emancipa il primate, questi cambia in modo radicale, perché il Fungo stesso porta dentro la scimmia qualcosa che prima non c’era, ovvero attiva qualcosa che sino a quel momento era rimasto inattivo. Ad ogni buon conto questo trasforma l’animale in un individuo pensante (che il fungo sia stato la causa dello sviluppo della corteccia cerebrale?).
In ciò l’intera speranza d’Abraxas ma, altresì, il pericolo per lui più grande: la possibilità (a quel tempo certamente assai remota) che l’uomo così dotato potesse trovare il modo per sottrarsi a tale destino di morte.
E’ per questo motivo che il Tiranno trasforma in “colpa primigenia” la “presa di coscienza” (è letterale) seguita all’ingestione del fungo, bollandola come somma disobbedienza ed esecrandone le conseguenze come sostanzialmente “cattive”. Non solo, cinque o sei eoni più tardi arriva a sacrificare il Figlio annunciando solennemente che tale atto aprirà agli uomini le porte del paradiso, donando loro nientemeno che l’immortalità.
In tal modo Abraxas protegge il proprio investimento: si assicura, tramite il senso di colpa e la promessa dell’immortalità (rispettivamente archetipi del bastone e della carota), l’assoluta fedeltà del suo “gregge” (in verità, mai termine fu più appropriato, anche se è curioso un pastore che alleva pecore per consegnarle all’immortalità, di solito lo fanno per tosarle e macellarle).
Ad ogni buon conto, detto trattamento marca in modo indelebile la Totalità tanto che, da quel momento, gli individui attendono tranquilli l’istante in cui Abraxas presenterà loro il conto. Sono esseri immortali, che possono temere? Per loro la morte non esiste, giacché il Padre li ha rassicurati in modo definitivo e l’anelito verso il trascendente, ormai, in loro è profondamente radicato.
Con l’avvento di Cristo, poi, tale promessa, sino a quel tempo contrabbandata dalle tinte draconiane degli albori come “divino sentire” e, in seguito, divenuta vero e proprio patto fra Dio e i viventi (Genesi 17, 2.7; Esodo 19, 5; Deuteronomio 5, 2; Geremia 31, 31.33), assurge a dignità assoluta, a fatto indubitabile quanto immanente. Così, la forza del supplizio subito dal Cristo sarà sufficiente a stregare il mondo, rinsaldando invincibilmente il sonno dei primati.
Chi potrà mai più dubitare di un Dio che è giunto a sacrificare Suo Figlio, pur d’assicurare un posto in cielo a ognuno di noi?
In tali condizioni, dunque, al Tiranno non rimane che raccogliere i frutti del proprio lavoro. Come? Semplice, dopo la morte fisica interviene una seconda morte, anticamente chiamata Piccola Morte. Tal evento può accadere sia nell’istante successivo la morte fisica, sia diverso tempo dopo. Tutto dipende dal fatto se quella specifica Totalità è stata capace, in vita, di costruire al suo interno qualcosa in grado di resistere in qualche modo alla forza della seconda morte.
Ad ogni buon conto, quando la Piccola Morte interviene la Totalità (o quel che ne rimane) vive l’evento come suprema unione amorosa (divina sizigia) con l’Assoluto; durante tale amplesso la Totalità cede all’Assoluto ogni oncia di consapevolezza distillata in vita e, per questo, cessa definitivamente d’esistere, mentre le singole Monadi tornano ad essere sospese nell’incommensurabile nagual, nell’attesa che la forza della vita le raccolga nuovamente in un altro essere.
Per inciso, dobbiamo alla competenza, come pure alla generosità di un uomo del livello di Igor Sibaldi attraverso la sua straordinaria rilettura della Torah (i primi cinque libri dell’Antico Testamento) e, in particolare, di Genesi (Bereshith), la prova documentale, nonché teologica, dell’esistenza del Tiranno (Igor Sibaldi, La Creazione dell’Universo. La Genesi Ed. Sperling e Kupfer, 1999. Incappai in quest’opera proprio mentre ero preso dalla stesura della Teologia e, come si può vedere, la inserii in questa).
Furono gli Elohim (Tutta-la-Divinità) a pensare la creazione e a darle il primo, potente impulso durante i primi sei giorni della stessa (i primi istanti del Big-Bang). Ma fu Ihoah (il nome, impronunciabile dagli ebrei, significa “Colui che è e che si manifesta nell’essere”) ad assumersi il compito, durante il lunghissimo sesto giorno, di fatto ancora in corso, di portare a compimento ciò che gli Elohim avevano solo pensato.
Ihoah, quindi, è il demiurgo, colui che noi chiamiamo Abraxas, il vero Grande Tiranno dell’universo conosciuto.
Evito richiami più specifici (ma consiglio vivamente, a chiunque voglia capire il vero significato dei libri scritti da Mosè, la lettura del lavoro di Sibaldi) e cito direttamente:
Ihoah (Abraxas, N.d.A.) è la componente divina che può cominciare ad entrare e ad agire davvero nell’universo creato. Ha ciò che gli altri Elohim, evidentemente, non hanno: la modalità dell’essere. Le altre componenti divine, gli altri Elohim, hanno ciascuno, evidentemente, altre doti che Ihoah non ha e che, chissà, forse permettono loro di entrare e di manifestare la Divinità in altri mondi, in altre dimensioni differenti dal nostro universo e per noi inconoscibili (i conoscitori di Castaneda possono, forse, vedere qui un parallelo con le famose “bucce di cipolla”). Di quelle altre componenti, degli altri Nomi possibili degli Elohim non sappiamo e non possiamo sapere nulla: noi conosciamo soltanto la realtà terrena, e perciò Ihoah (Abraxas) diventa per noi l’unico Nome personale, l’unico Volto della Divinità, nella nostra realtà terrena. E’ il Dio della terra.
Bello, senza dubbio. Tuttavia, è possibile aggiungere che, siccome Abraxas, Ihoah stesso è l’universo che come Ihoah va modellando. Per questo nella gnosi qui descritta Ihoah, oggetto noumenico per definizione, muta il suo nome in Abraxas. Tale nome serve a marcare la consapevolezza della nostra esistenza dentro di Lui, siccome essere fenomenico. Ciò al fine di renderci possibile la fuga da Lui.
Ihoah modella l’’aDaM (nel senso d’umanità), lo dota di un’anima (l’’aiSHaH, ossia la parte femminile dell’Io che incarna l’impulso verso la conoscenza) e lo spinge, attraverso questa, a nutrirsi del sacro fungo. Ihoah è mosso, in questo, dall’oscura consapevolezza di non poter resistere per sempre alla forza della propria morte e, quindi, dalla necessità (in quell’inizio avvertita in modo quasi esclusivamente istintivo) di aumentare indefinitamente la propria consapevolezza tramite l’assorbimento della consapevolezza distillata dall’’aDaM.
Ma se Ihoah modella l’’aDaM in tal guisa, questo significa che Abraxas modella una parte di Sé stesso in forma di ‘aDaM. Ed è propriamente in questa forma di gigantesco (quasi-infinito) essere cosciente che noi lo conosciamo.
Già, perché dopo l’ingestione del frutto proibito, oltre all’’aDaM, Abraxas comincia ad esistere in modo consapevole, poiché, nota splendidamente Sibaldi, Ihoah ha perduto ogni autorità sull’’aDaM. In realtà, aggiungo io, nel momento stesso in cui Ihoah ha concepito l’idea di servirsi dell’’aDaM per risolvere il problema della sua divina e immensa angoscia si è condannato a una progressiva quanto esiziale trasformazione in Abraxas. Così, ora, Egli ha due facce. La prima invisibile, noumenica; la seconda visibile, fenomenica.
Trasformazione alimentata nel corso del tempo dalla consapevolezza generata dall’’aDaM, durata sette eoni (pressapoco, quattordicimila anni) ed ora giunta a definitivo compimento.
Questo significa che il demiurgo Ihoah esiste ancora sia nella forma del Dio minore (rispetto agli Elohim o al PrePadre di gnostica memoria), sia in quella di Trogoautoegocrat. Per questo d’ora in avanti chiameremo il Tiranno: Ihoah-Abraxas.
Tremendo, lo so. E’ una vera fortuna che la verità abbia sempre due facce…già, la verità è doppia, un po’ come quel Dio di cui s’è appena parlato. Tuttavia e prima di affrontare il problema di come porsi dinanzi a quest’onnipresente ambiguità dobbiamo tornare alla Totalità.
Quando l’uovo della femmina è fecondato ha inizio un “progetto di nuova Totalità”. Tale progetto, com’è noto, dura all’incirca nove mesi e vede il feto evolvere da embrione a pesce, ad anfibio, a rettile, ad uccello, a mammifero e sino ad essere umano (il processo descritto prende il nome di ontogenesi e la sua scoperta si deve al tedesco Ernst Heinrich Haeckel).
Nella sostanza, tale sviluppo ripercorre il sentiero che la vita ha battuto dai suoi albori, agli inizi del tempo, sino al momento in cui Ihoah-Abraxas maturò la consapevolezza che era imprescindibile fare qualcosa di radicale al fine di risolvere il suo unico problema: sopravvivere.
Durante la gestazione, quindi e sulla scorta di una mappa che ognuno di noi porta impressa nel proprio DNA, il “progetto di Totalità” avanza su due piani: l’uno fisico (piuttosto conosciuto dal pensiero positivo), l’altro psichico (sconosciuto).
La realizzazione del “progetto di Totalità” sul piano psichico attiene al progressivo aumento del numero delle Monadi che compongono il feto; incremento che avviene nelle varie fasi di crescita del feto medesimo.
E’ evidente che ogni fase, dalla più antica a quella più recente, è caratterizzata dalla presenza di un preciso numero di Monadi: le stesse che troviamo, in ordine di tempo, in un embrione, in un pesce, in un anfibio e così via sino ad arrivare al fatidico numero di 144.000. Il numero dell’uomo.
Ciò si compie durante l’ultima fase della gestazione eppure, nonostante questo, “quel che c’è” è ancora un “progetto di Totalità” poiché il feto deve affrontare il travaglio e, soprattutto, per potersi dire individuo vero e completo deve respirare
Così Genesi 2, 7 “allora il signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.” Così Genesi 2, 7 nella traduzione di Sibaldi “E Cloui-che-E’-Tutta-la-Divinità plasmò l’umanità facendo salire un’essenza dal sangue-della-terra e insufflò nel suo carattere la quintessenza delle vite perché l’umanità esistesse nel modo (d’esistere) dell’alito di vita.” Sotto questo profilo, quindi, le fonti di ciò che chiamiamo “uomo” sembrano davvero tre: quella materiale (il soma), quella psichica (il fungo) e quella spirituale (il soffio o respiro).
Tutto questo corrisponde in modo francamente sublime al destino di Ihoah-Abraxas giacché ogni nuovo “progetto di Totalità” ripercorre la storia della Consapevolezza dai suoi albori (ossia da quando Ihoah-Abraxas cessò d’esistere come sola materia inanimata), sino alla nascita (che a questo punto, evidentemente, è qualcosa di diverso da ciò che solitamente chiamiamo “creazione”) del frutto più completo di un processo in atto in Ihoah-Abraxas stesso dall’istante successivo al Big-Bang: l’uomo.
L’uomo, quindi e sotto questo profilo, appare più come l’esito dell’evoluzione che Ihoah-Abraxas ha vissuto al Suo interno sin dall’Inizio, giacché è proprio da quel favoloso Inizio che la forza della Morte ha preso a premere su di Lui.
E’ esattamente questo il significato più profondo di quella che, in apertura, abbiamo chiamato la Triade Superna (Morte, Vita, Consapevolezza). Tale triade nasce con la Creatura e costituisce il fondamento della meccanicità dell’intero universo. E’ il modo d’essere più profondo e vero di Ihoah-Abraxas, meglio, della Sua faccia visibile: “Morte” fuori (forza attiva) e “Vita” dentro (forza passiva) in modo che dalla frizione di queste due forze nasca “Consapevolezza” (forza neutralizzante).
Pensiamo al nascituro, poco prima del parto. Sino a quell’istante questo “progetto di Totalità” ha vissuto in un vero e proprio ‘eDeN, esattamente come lo stato in cui versa Ihoah-Abraxas prima dell’insorgere dell’angoscia, uno stato colmo di beatitudine e meravigliosa incoscienza, privo di pensieri e di domande.
In questo stato, il feto (come Ihoah-Abraxas) ha passato innumerevoli eoni (!), dondolandosi estatico in un mare tanto apparentemente privo di limiti quanto colmo di dolcezze. Ad un certo punto, però, sente giungere la fine di quell’incantesimo; d’un tratto riconosce di avere raggiunto limiti oltre i quali non è più in grado di mantenere l’inconsapevolezza poiché avverte l’atroce spinta della Morte. Allora capisce che deve cambiare. Se vuole sopravvivere deve differenziarsi, marcando sempre più la distanza fra sé e ciò che lo minaccia.
Istintivamente comincia a spingere. Lavora di gambe usando la testa come un cuneo. Per la prima volta dal concepimento egli sta producendo uno sforzo, sta usando la sua energia per cambiare qualcosa, forse per diventare diverso da “ciò che è” siccome “ciò che è” non basta più a contenere la tremenda cosa che (ora lo sa!) da sempre preme su di lui. Tuttavia, non avendo informazioni sufficienti, non riesce ad andare oltre una soluzione “fisica” del suo problema. In una parola: fugge.
Questo semplice e drammatico atto, questa lotta mortale, fissa il modo in cui la Totalità reagirà per l’intera vita alla minaccia della Morte: da ora e sino alla fine egli, ricordando il suo primo atto, continuerà a fuggire il più lontano possibile da quell’orrore sino al momento in cui, non potendo più fuggire, morirà.
(Continua …)
Honros
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