Il mistero che avvolge l’identità di William Shakespeare è noto ed è stato molto discusso.
Quel che è meno noto è il fatto che egli, immerso nel clima del ‘Rinascimento’, sia stato un grande conoscitore delle scienze esoteriche, come rivelano le sue opere.
In questo contesto l’intero universo è considerato come un grande teatro di specchi, che può essere guardato da prospettive differenti e anamorfiche, come un insieme di geroglifici da decifrare in cui, per usare le parole di Fernando Pessoa “tutto è simbolo e allegoria”.
Nell’Inghilterra elisabettiana vi erano diverse correnti filosofiche ed esoteriche di cui si dice il nostro personaggio facesse parte. Che egli appartenesse alla confraternita dei Rosacroce o meno, non si può ignorare che in alcuni dei suoi drammi emerge una sapienza talmente estesa e profonda che sembra affondare le proprie radici nell’ermetismo e nella Cabala. Il pensiero ermetico,- come rileva la storiografa Paola Zambelli, in uno studio significativamente intitolato La natura ambigua della magia, – dice che il nostro linguaggio è ambiguo, polivalente, e si avvale di simboli e metafore. In alcuni brani delle opere di Shakespeare, (Amleto, Macbeth, Il sogno di una notte di mezza estate, La Tempesta, in particolare, ma anche Il mercante di Venezia, e gli ultimi drammi romanzeschi: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’Inverno) è possibile individuare parole e concetti tratti da esoteristi quali Ermete Trismegisto, Paracelso, Cornelio Agrippa, Francesco Giorgi, Marsilio Ficino, Giordano Bruno e dal gruppo teologico tedesco conosciuto come Rosacroce, la cui dottrina si diffuse pienamente in Inghilterra nel XVII secolo.
Macbeth è forse il primo dramma che introduce seriamente in scena i riti e le pratiche della stregoneria contemporanea. Con l’inserimento nel testo e quindi in scena delle streghe, delle evocazioni ed invocazioni, Shakespeare ha anche introdotto una dimensione marcatamente sovrannaturale all’intera azione. Il drammaturgo ha incluso, nei discorsi delle streghe e in particolar modo negli incantesimi, una conoscenza della magia negromantica ed esorcistica.
Le evocazioni presenti nel testo sono vere e proprie evocazioni e rivelano una consapevolezza del potere della parola che esplica qui la facoltà di stare per la cosa nominata, proprio come scrive Agrippa nel De Occulta Philosophia: “le parole esprimono e rappresentano le cose, le esplicano, ne costituiscono il veicolo”.
Questo atteggiamento mentale deriva dalla diffusa opinione, documentata in Inghilterra da John Dee, derivata da Pico della Mirandola, che le parole, usate in certi modi dal mago, sono capaci di veicolare forze misteriose e occulte. Shakespeare conosceva lo gnosticismo attraverso la filosofia ermetica di Giordano Bruno, come aveva già approfonditamente indagato la Yates, e negli studi più recenti di Bloom questa influenza viene riconosciuta, anche se in modo indiretto. È altresì riscontrabile un particolare interesse per la dimensione metafisica, e soprattutto per la parola e l’immagine, l’immagine visiva.
Importante è nel testo il rapporto che intercorre fra parola e cosa, fra essere e dire. Si può infatti affermare che, nella prospettiva occidentale, il linguaggio è stato sempre visto come un’entità costitutiva dell’uomo. L’essere si realizza nel linguaggio, come direbbe Martin Heidegger. Il linguaggio non è semplicemente un segno, la parola, il nome conferiscono un’identità, la parola è dotata di un potere reificante, essa cioè non si limita ad indicare ma è, si identifica con ciò che designa. Non si tratta di una mera analogia fra il nome e la cosa, ma di un vincolo sostanziale, poiché, “l’essere non è altro dal suo darsi nel linguaggio”. Esiste quindi un rapporto inalienabile fra uomo e linguaggio, a cui il mondo classico diede il nome di lògos: termine che indica simultaneamente la manifestazione fonica di qualcosa e la sua essenza.

È interessante osservare come in Inghilterra questa concezione naturalistico-magica del segno linguistico diventi il bersaglio dell’opposizione religiosa contro l’occultismo. Contrapporre un punto di vista ‘convenzionalistico’, che neghi cioè la possibilità di un rapporto diretto fra segno e oggetto, equivaleva a cercare di togliere alla parola medesima ciò che essa aveva di pericoloso, di misterioso, di ‘diabolico’ o ‘stregonesco’ che le aveva conferito l’ermetismo cabalistico. All’interno di questo dibattito, è interessante osservare la posizione di Francis Bacon, il quale mette in guardia contro l’idolatria che il Cinquecento aveva riservato al linguaggio. Egli afferma nell’Advancement of Learning: “le parole sono immagini e innamorarsi di loro è come innamorarsi di un quadro”.
La filosofia che informa il pensiero elisabettiano e quindi l’estetica shakespeariana deriva dalla scuola neoplatonica fiorentina, ma anche dall’ermetismo e dalla filosofia dei Rosacroce che può aver esercitato non pochi influssi sull’elaborazione delle sue creazioni poetiche. La letteratura inglese, tra fine del XVI secolo e l’inizio del XVII secolo, è impregnata di influenze occultiste ed esoteriche. I drammaturghi elisabettiani – (non solo Shakespeare, ma anche Christopher Marlowee Ben Jonson) – hanno prodotto opere che si colorano di un esoterismo in cui è possibile scorgere l’uso di idee riprese da dottrine dei Rosacroce, idee anteriori al movimento stesso e che hanno nutrito l’humus cui il grande drammaturgo ha attinto.
(Ut Imago Color) Il colore è ovunque, ma ovunque esso sia, c’è già un simbolo.
Anche i colori costituiscono un linguaggio metafisico, ermetico, che va svelato, che richiede una comprensione e interpretazione.
“Lo studio della combinazione dei colori è un’introduzione alla scienza ermeneutica delle corrispondenze”.
Corrispondenze analogiche e simboliche tra microcosmo e macrocosmo, tra l’uomo e l’universo nel Rinascimento. Ed è proprio sul principio delle suddette corrispondenze che si basa la magia, ossia il sistema di analogie simboliche che vigono e operano nell’universo. I colori non costituiscono quindi un linguaggio arbitrario, ma rivelano delle affinità che è possibile svelare. Essi si configurano così come un ‘algoritmo del mondo’. L’attribuzione di un valore simbolico ai diversi colori ha una tradizione molto antica, affonda le proprie radici nella notte dei tempi preistorici.
Una eclatante esemplificazione del contrasto bianco-nero, per esempio, è riscontrabile anche e soprattutto nell’Othello, dove alla purezza e al candore sia esterno che interiore di Desdemona, si oppone la nerezza del marito, nella pelle e nella mente, ottenebrata, accecata, ignorante, incapace di vedere e comprendere la vera natura della moglie, al di là degli inganni e delle apparenze orditi dal calunniatore Jago.
I colori sono così legati ad un tessuto di immagini e simboli che percorrono tutta la tragedia, e formano la cosiddetta ‘Imagery’ o trama di immagini metaforiche e simboliche. Si possono analizzare, quindi, oltre alle metafore e ai simboli, la presenza dei numeri, delle immagini bestiali, infernali e demoniache. Emerge così che ‘colori’ non sono solo le tinte in senso stretto, ma anche le immagini simboliche ad esse correlate, come per esempio, la Luna, che ha una sua valenza specifica all’interno di questo testo, la Natura, con i suoi elementi, l’aria, la nebbia in cui volano le streghe, e gli animali – simbolo che popolano questo mondo, quasi tutti neri e malefici.
I colori del Macbeth sono tinte ‘elementali’, simboliche, archetipiche, sono le tinte dei filosofi naturalisti occidentali (Paracelso, Telesio, Cardano, Della Porta, Bruno) che si rifanno all’insegnamento classico dei presocratici, ad Empedocle, che considerava i colori come le ‘radici’ del mondo esistente. Sono le tinte dei simboli che, per dirla con Gaston Bachelard, si distribuiscono intorno ai quattro elementi tradizionali.
Il termine ‘simbolo’ non ha un significato filosofico unitario e monovalente, ma ambiguo, polivalente, mutevole e stratificato, così il colore, che non si presta ad un’ unica lettura in cui si esaurisce tutto il suo senso. Colori, simboli e immagini, sono suscettibili di interpretazioni mutevoli che svelano e ri-velano e possono suggerire significati coerenti con l’economia generale di un testo letterario. Ogni colore, come il simbolo, infatti, può sempre essere inteso nel suo duplice significato; positivo e negativo, ‘divino o infernale’. Compito del lettore interprete è dunque quello di comprendere in quale ambito semantico e quale valenza attribuire alla tinta che è in grado di cogliere.
In L’uomo e i suoi simboli Jung rileva come l’arte impieghi una modalità espressiva simbolica e figurata, e come il linguaggio dell’uomo sia intriso di simboli e immagini, e nota “ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale”. Nella dimensione del colore, come in quella del simbolo, è pertanto racchiuso uno sfondo ‘metafisico’ che presuppone delle affinità tra il mondo visibile e l’invisibile.
C’è allora qualcosa che non sia un simbolo? Che non alluda ad un oltre, ad un ‘al di là’dell’immagine percepita ed evocata? Forse il lavoro di Shakespeare è proprio un invito a trovare la metà di quell’oggetto spezzato che, riunita all’altra parte, riconduce alla interezza e alla completezza, un invito alla conoscenza, iceberg sommerso di cui la nostra mente intravede soltanto il profilo.
scritto da Caroline Pagani
Fonte: https://www.shakespeareitalia.com/tematiche/shakespeare-e-la-filosofia-occulta-del-rinascimento/
VIENI A CONOSCERE LA NOSTRA ORGANIZZAZIONE - Clicca sui loghi qui sotto -
SE TI E' PIACIUTO L'ARTICOLO CONDIVIDILO SUL TUO SOCIAL PREFERITO
QUALCHE PICCOLO CONSIGLIO DI LETTURA