Giunto a casa di Schopenhauer per un colloquio, Carl Georg Bähr, uno dei discepoli che si avvicinarono al filosofo negli ultimi anni della sua vita, racconta che nel mezzo di una conversazione Schopenhauer prese da un angolo della stanza una piccola figura di ferro o di ottone che custodiva gelosamente come un tesoro. Era una piccola statua del Buddha. Il filosofo, dopo aver mostrato pieno di orgoglio al visitatore la statua, iniziò, come soleva spesso fare con chi gli faceva visita, a narrare la vicenda del principe Siddharta Gautama.
«Era come se accanto a me sedesse un saggio orientale e io volessi gettarmi ai suoi piedi», scrive Bähr, ricordando l’appassionata narrazione del filosofo, quasi a voler confermare, senza saperlo, l’affinità stellare che, secondo Schopenhauer, unirebbe la propria biografia a quella del Buddha, in quanto − come il filosofo annota nel 1832 − anch’egli, all’età di diciassette anni, fu turbato «dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte».
Non a torto, quindi, il nome di Schopenhauer viene spesso associato alla filosofia indiana. Il filosofo incontrò l’Oriente negli anni giovanili, restandone completamente affascinato, si dedicò con passione allo studio del pensiero indiano, intrecciando indissolubilmente ad esso il proprio pensiero, e giungendo così a essere probabilmente il primo filosofo europeo a considerare seriamente, senza alcuna traccia di pregiudizio etnocentrico, ma anzi, con un entusiasmo e con un’ammirazione senza pari, la filosofia e la religione indiana, con cui instaurò un confronto costante e serrato, destinato a durare più di quarant’anni.
Fin dal primo incontro, risalente al periodo tra il 1813 e il 1814, tra Schopenhauer e il pensiero indiano fu amore a prima vista: è noto come il filosofo ritenesse le Upanisad «l’emanazione della più alta saggezza umana»,la cui lettura, scrive nei Parerga, «è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla mia morte». Inoltre Schopenhauer, nella prefazione alla prima edizione del Mondo come volontà e rappresentazione (1818), indica come chiavi di lettura del proprio pensiero non solo Platone e Kant, ma anche e soprattutto e le Upanisad.Egli, infine, non smise mai di proclamare e di sottolineare durante l’intero corso della propria vita la «concordanza paradossale» e «prodigiosa» tra la sua filosofia e il pensiero indiano (Brahmanesimo e Buddhismo), un’affinità della quale Schopenhauer non poteva che rallegrarsi, in quanto fermamente convinto che essa conferisse alla propria dottrina un’aura di antica saggezza e di verità.
Sia la filosofia indiana dei Veda e delle Upanisad sia il Buddhismo rappresentarono sempre per Schopenhauer una prestigiosa conferma delle proprie affermazioni: il pensiero orientale, frutto della sapienza più antica e quindi più vera – in quanto maggiormente vicina all’origine dell’umanità – secondo il filosofo si sarebbe trovato in perfetto accordo con la propria filosofia, culminante nella teoria del mondo come volontà, essenza di ogni cosa celata dalla rappresentazione. Termine, quest’ultimo, che Schopenhauer equiparò come equivalente, fin dai suoi primi incontri giovanili con il pensiero indiano, a quello di māyā, nel pensiero indiano l’illusione, il sogno, l’inganno, la magia.
Schopenhauer stabilì così il primo dei moltissimi punti di contatto che avrebbero unito, nel nome della verità, il suo pensiero alle antichissime speculazioni filosofiche indiane. In seguito egli avrebbe scovato “conferme” alla propria filosofia in quasi ogni aspetto del Brahmanesimo e del Buddhismo, dalla metafisica all’etica: “tradusse” all’orientale praticamente ogni concetto cardine del sistema, interpretando come paralleli ed equivalenti concetti come Wille e Brahman, rappresentazione e māyā, stato di affermazione della volontà e samsara, negazione della volontà e nirvana, redenzione e moksa. Molti altri punti di contatto (reali o presunti) furono trovati da Schopenhauer tra sé e l’Oriente: l’idealismo, l’esistenza di un principio unico celato dall’illusione della molteplicità, il pessimismo, l’antiteismo, la credenza nella rinascita, l’assenza di un dio personale, l’etica della compassione estesa anche agli animali, l’idea che ci si debba liberare dalla sofferenza, poiché «l’esistenza è senza dubbio una strada sbagliata, tornare indietro dalla quale è redenzione».
Tuttavia, se è innegabile l’esistenza di alcuni punti di contatto tra il pensiero di Schopenhauer e alcuni aspetti del Brahmanesimo e del Buddhismo, è altrettanto evidente che la convinzione schopenhaueriana di una concordanza «prodigiosa» e «paradossale» tra la propria filosofia e quella indiana è frutto di alcuni fraintendimenti, forzature ed interpretazioni errate, dovuti a un’eccessiva considerazione di alcuni aspetti del pensiero indiano a discapito di altri, che si accordano meno alle teorie schopenhaueriane, e che per tale ragione vengono dal filosofo sottovalutati o addirittura totalmente tralasciati.
L’interpretazione schopenhaueriana dell’Oriente, sebbene abbia l’indiscusso merito di essere frutto di un tentativo di dialogo e di confronto con l’«altro», risulta interessante, viva e appassionata, ma resta comunque nel complesso limitata, in quanto essa, nella continua ricerca di conferme, “filtra” la cultura indiana attraverso categorie troppo poco indiane e eccessivamente “schopenhaueriane”. Il fatto che l’autore del Mondo vedesse nella filosofia indiana non solo un pensiero straordinariamente affine al proprio, ma una vera e propria conferma delle proprie teorie, lo portò ad un’interpretazione dell’Oriente per molti versi di parte e da più punti di vista scarsamente oggettiva: egli accentuò fino all’esagerazione gli aspetti di affinità, tralasciando senza quasi nemmeno menzionarli i punti che invece lo allontanavano dal pensiero indiano.
Ciò nonostante, il «viaggio» di Schopenhauer in quello che per lui fu l’Oriente, e che egli credette essere l’autentico Oriente, non perde per questo di fascino. Al contrario, esso ha il merito, nonostante i propri limiti, di avere notevolmente contribuito all’apertura verso mondi diversi del Vecchio Continente, spesso prigioniero di pregiudizi eurocentrici ed etnocentrici, gettando così le basi per un dialogo tra le diverse culture.
Con tutti i suoi limiti interpretativi esso fu comunque un importante incontro, il quale rimane un esempio brillante, lungimirante e intelligente di dialogo, puro e privo di pregiudizi, fra Oriente e Occidente.
- A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Introduzione di G. Vattimo, Mondadori, Milano.
- A. SCHOPENHAUER, Il mio Oriente, a cura e con un saggio di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2007.
- G. GURISATTI, Schopenhauer e l’India, in A. SCHOPENHAUER, Il mio Oriente, cit.
scritto da: Matteo Antonin
Fonte:https://larottaperitaca.wordpress.com/2011/01/14/schopenhauer-e-la-filosofia-orientale-2/
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