Ciò che mi chiedo è se sia possibile individuare punti di contatto tra la dimensione dell’iniziato ed il relativo percorso esoterico ed alcune discipline, in particolare fisica e filosofia orientale. Altra domanda è se, trovato il nesso, possa ipotizzarsi un fine comune.
La fisica, dal greco physis = natura, è la scienza che studia, eccezion fatta per i processi biologici e le trasformazioni chimiche della materia, i fenomeni naturali. La natura però, ha grande importanza anche per chi è intento a percorrere il proprio percorso esoterico. Si tratta, in fondo, tornando alla fisica, dell’arte di descrivere e di misurare proprietà, o grandezze, attraverso il sapiente utilizzo di relazioni matematiche, avvalendosi di uno schema d’indagine chiamato “metodo sperimentale”, il cui fondamento è l’esperimento riproducibile.
Relazioni matematiche sono ravvisabili anche nella cabala. L’idea comunque utilizzata anche da Galileo Galilei (1564-1642) è l’interpretazione dei fenomeni e delle relative cause attraverso ipotesi che, se validate dai risultati sperimentali, dovrebbero essere riconosciute quali teorie. Si può sperimentare anche la propria umanità cerando d’interpretarne i risultati: forse è un metodo. Il metodo sperimentale infatti sembrerebbe, alla maggior parte degli scienziati, uno strumento particolarmente utile per lo studio sistematico dei fenomeni naturali.
Può certo consentire, attraverso un percorso caratterizzato da leggi, modelli e teorie, una più chiara presa di coscienza delle azioni e delle interazioni tra energia e materia, indicando quale remota, ambiziosa finalità l’interpretazione e la conoscenza delle strutture universali macroscopiche con i microscopici costituenti delle stesse. Per raggiungere un simile obbiettivo diventa imprescindibile il contributo di grandi menti. Per tale motivo, per dirla con un detto orientale, “preferisco diventare il bambù”.
Pare un’affermazione poco chiara ma vuol solamente significare il mio intendimento di non pretendere di riprodurre apparenze statiche e dettagli, proprio come accadeva ed accade ai maestri Zen della pittura a inchiostro (suibokuga o sumie) e dell’haiku (la strofa a diciassette sillabe), per i quali conta rendere “presente” il mondo nella sua essenza, nella forma luminosa e impalpabile del suo offrirsi, nelle curve erratiche del suo movimento.
Per ottenere ciò, infatti, si dice che un pittore debba “diventare il bambù” prima di dipingerlo. Essenza ed energia trovano dunque asilo nelle tre dimensioni prese in esame. Per questa ragione esporrò l’intuizione di due patriarchi Zen: Eisai e Dogen, vissuti in Giappone agli albori del periodo Kamakura, tra il 1100 e il 1200 d.C., anche se, il germe di questo pensiero, come spesso accade alla Tradizione si sviluppò altrove e in epoca preistorica, circa quindici secoli or sono.
Quel giorno, l’indiano Bodhidharma, vagabondo maestro di meditazione, si mise in cammino verso la Cina e, prima di arrivare a Nanchino, fu ospite dell’imperatore Wu, il quale lo interrogò una prima volta:
Ho fatto erigere molti templi. Ho ricopiato i sacri sutra. Molti ho condotto al Buddha. E però ti chiedo: che cosa ho ottenuto, quale ricompensa ho guadagnato?
Niente, Vostra Maestà. Rispose Bodhidharma
Pare che nella sala dei ricevimenti fosse allora calato il terrore: una simile risposta avrebbe potuto tradursi nell’esecuzione dell’interlocutore, ma non solo, anche in quella di tutti i presenti, per il solo fatto d’aver assistito alla scena, d’aver ascoltato quelle parole poco ossequiose. Così, per comune fortuna, non accadde e il reggente, per la seconda volta, interrogò il vecchio saggio, che pareva un po’ annoiato:
Dimmi dunque qual è il più importante principio o insegnamento?
il vaso vuoto, rispose Bodhidharma, alludendo al vuoto del non attaccamento.
Wu non capì e perplesso, per la terza volta, interrogò l’ospite:
Ma si può sapere chi sei esattamente tu che te ne stai qui al mio cospetto?
Bodhidharma ammise candidamente di non averne la più pallida idea.
Per tal motivo propongo un primo koan, però tratto da ben altra fonte, Matteo, 6, 28:
Considerate come crescono i gigli nei campi
Anche perché, a prescindere dal divertente episodio narrato e dal suo significato più profondo, il progresso della scienza, in particolar modo della fisica, ci ha regalato, dall’800 in poi, grandi soddisfazioni ed esiti applicativi di non indifferente portata: le macchine termiche, l’elettronica e l’informatica, l’aeronautica e persino il nucleare, meccanica quantistica e relatività comprese. Quante cose, bisogna esser contenti. Ci riusciamo? Insomma, non possiamo non gioire di fronte a certe conquiste. Consideriamo la meccanica, che, prima d’ogni altro grazie a Newton (1642-1727), ci istruisce su principi e leggi descrittivi del moto dei corpi, sulle cause, o forze, che lo determinano. Assaporiamo la teoria d’inquadramento fenomenologico dell’elettromagnetismo, indicata da J. C. Maxwell (1831-1879). Ottica e acustica, termologia, meccanica quantistica e statistica, fisica atomica, nucleare e delle particelle, relatività speciale, o ristretta, relatività generale della gravitazione, sono l’importante eredità di una rivoluzione scientifica intrapresa nel XVII secolo e oggi, precipitando perenne nella congerie di grandezze misurabili, unità, rigorose descrizioni, linguaggi, metodi e persino errori, incapaci d’arrestarsi un solo istante per assaporare, con maggior semplicità, la bellezza della natura. Allora mi fermo io, che proprio così soddisfatto non riesco ad esserlo, e recito una poesia haiku, che probabilmente è anche un koan (l’indovinello paradossale tipico della cultura Zen):
- Un antico stagno
- Vi salta una rana
- Il suono d’acqua
Questi tre versi individuano un evento, una realtà, proprio come fanno le formule matematiche, descrivono la staticità e il moto della rana ed esplodono nel rumore dell’acqua (un’onda mi correggerebbe un fisico), ma insieme all’informazione – in più – mi trasmettono serenità e gioia. Queste poche parole, ingannevolmente semplici nella propria musicalità, inquadrano, per vero, l’intersezione dell’atemporale con l’effimero, scavalcando analisi razionale e deliberazione, poiché, nell’istante critico, nulla deve frapporsi tra oggetto e percezione. Sotto il profilo descrittivo il poemetto racconta il silenzio della sera rotto dal tonfo. Si vuole che l’autore, Basho, abbia immediatamente coniato i due versetti conclusivi, l’elemento effimero, per poi cimentarsi lungamente nella composizione del primo, parte statica e atemporale. Un tale esercizio, o esperimento, ci richiede l’accantonamento completo, fosse anche per un solo istante, di tutte le nostre doti interpretative affinché la mente divenga tutt’uno con il circostante, consentendo l’operazione istantanea della registrazione dell’immagine percepita. In quel momento si è consapevoli dell’inesprimibile, di una verità: il transeunte è semplicemente parte dell’eternità, il molteplice è effettivamente ridotto a unità, poiché la percezione istantanea si trasferisce direttamente dai sensi alla più intima comprensione, senza transitare per le facoltà interpretative. Ma in questo momento, allora, percorro la via dello Zen, il cammino iniziatico, il percorso della fisica o cos’altro? Come Bodhidharma, anch’io ammetto candidamente di non averne la più pallida idea. Approfittando di questa mia debolezza m’incalza allora il fisico.:
Ma cosa stai farneticando? Confondi scienza e filosofia, fisica e religione!
Per fortuna, interviene in mio aiuto un suo illustre collega, Werner Heisenberg:
E’ probabilmente vero in linea di massima che nella storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi si verificano ai punti d’interferenza tra due diverse linee di pensiero. Queste linee possono avere le loro radici in parti assolutamente diverse della cultura umana, in tempi diversi e in ambienti culturali diversi o di diverse tradizioni religiose; perciò se esse realmente s’incontrano, cioè, se vengono a trovarsi in rapporti sufficientemente stretti da dare origine a un’effettiva interazione, si può allora sperare che possano seguirne nuovi e interessanti sviluppi.
Diamo spazio allora allo Zen, se lo dice Heisenberg, ma il percorso iniziatico? Si tratta della vibrazione di un grande segreto: il risolversi del tutto, di un principio unico in differenti onde e poi viceversa, là dove, guarda caso, luce, calore, suono, elettricità, magnetismo e quant’altro passeggiano con la volontà e l’immaginazione, con il pensiero e la vita stessa.
Nulla si perde, nulla si distrugge e tutto si ritrova. In questo riscontro il profondo collegamento tra illuminazione, filosofia orientale e fisica.
Si tratta di canoni che l’iniziato applica al pensiero umano, ma che rappresentano oggi, nella totalità delle relative constatazioni, l’ultimo traguardo, o forse la nuova partenza, della fisica moderna. Il tal senso mi piace credere che il pensiero, avendo a che fare, per via di qualche sfuggente interconnessione, con monadi e iperuranio o cos’altro sia, si propaghi indipendente, secondo un sistema vibratorio / particellare suo proprio, indipendentemente dal cervello e dal funzionamento dell’organo stesso, corrispondendo dunque con la Luce Intellettuale. Le nostre cellule nervose, mi viene un dubbio, ci manifestano il pensiero o hanno il compito di generarlo? Come per il Tutto, però, è forse la funzione ad esser creatrice dell’organo e mi viene in mente che, nella dottrina Platonica, l’eterno fattore prende proprio il nome di Logos, termine greco che definisce la Parola, Il Verbo e la Ragione e che trovo romantico oltre che corretto riferire anche alla Luce Intellettuale esistita prima d’ogni altra realtà.
Dal Vangelo di San Giovanni:
Nel principio era la Parola e la Parola era con Dio, e la parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei: e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita; e la vita era la luce degli uomini; e la luce spende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno ricevuta…
Parrebbe il racconto di una Luce capace di giungerci attraverso l’intuito, un insegnamento istintivo che solo successivamente si trasforma, forse per colpa della nostra imperfezione, in coscienza e in fine in completa comprensione. Sembra anche un koan Zen. Ci sarà mica un qualche possibile collegamento? Diventa allora necessario fare un passo indietro, alle origini del pensiero Zen. Potremo subito notare come sia, anche in questo caso, il fondamento. Infatti, il simpatico e apparentemente svampito Bodhidharma, salutato l’imperatore Wu, si ritirò in un monastero e intraprese una lunga meditazione, la meditazione dhyana, termine sanscrito originariamente pronunciato Ch’an, in seguito ribattezzato dai Giapponesi Zen. L’insegnamento di base dunque è quello della meditazione e del vaso vuoto, nessun’immagine sacra o divinità da adottare, poca rilevanza alle scritture, poiché il dogma centrale è l’inutilità del dogma stesso.
Il maestro investe il discepolo con il paradosso per cui nulla gli può essere insegnato: la comprensione è possibile solo ignorando l’intelletto e prestando ascolto all’istinto e liberando l’intuizione.
Lo Zen divenne così la religione e filosofia dell’Anti Mente, la quale ha assunto un significato più attuale e coerente in anni recenti, con la scoperta che la mente umana non è entità unica, ma è divisa in due differenti segmenti funzionali. L’emisfero cerebrale sinistro sovrintende alle funzioni logiche e analitiche, mentre quello destro regola la percezione e la comprensione intuitiva, il non verbale: esempio, il primo ci consente di articolare un discorso ma non è capace, a differenza del secondo, di ricordare le parole di un canzone. Contrariamente a quanto accaduto in Occidente, dove fin dai tempi degli antichi greci si è coltivata una fede pressoché incrollabile nella superiorità dell’analitico, in Oriente, attraverso lo Zen in particolare, la visione è perfettamente antitetica, tant’è che i maestri hanno inventato ed elaborato tecniche, come gli assurdi enigmi koan, finalizzate a screditare l’aspetto logico verbale della mente, per poter definire la realtà attraverso le percezioni dell’emisfero destro, l’Anti Mente.
L’esplorazione e la sperimentazione della realtà vengono perpetrate senza il fuorviante ruolo dell’intelletto, delle categorie e dell’analisi ed i risultati anche pratici, anche attinenti alla fisica (molti grandi fisici contemporanei sono orientali) ci sono e sovente smentiscono i più ferrei assiomi della civiltà occidentale e anche se così non fosse tali pratiche sanno comunque renderci più sereni e contenti, risultato non trascurabile.
Dottor Alfredo Pelli
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