Nella storia del pensiero e nella vita di ogni giorno accade spesso di trovarsi nel bel mezzo di accanite dispute ideologiche
L’approfondimento del problema passa non di rado in secondo piano rispetto alla possibilità di poter brandire una “bandiera” che identifichi e contrapponga me all’altro. Le tematiche vengono fortemente polarizzate: bene contro male, vero contro falso, giusto contro ingiusto, bello e brutto, sacro e blasfemo, ideale e materiale, ecc. ecc. Si viene facilmente catturati dal fascino di uno dei due opposti: questo fa sentire vivi, parte di qualcosa, eppure in realtà ci rende agiti da un idealismo che non ci appartiene, che va a compensare un forte bisogno psicologico, emotivo, perlopiù inespresso e inappagato. A favore dell’opposizione tra le polarità va però detto che gli opposti si chiariscono e definiscono reciprocamente: senza il nero, come saprei com’è il bianco? Il forte sbilanciamento in una direzione in molti casi non è che una semplice compensazione, o un mezzo utile per definire meglio i due poli. L’opposizione tuttavia svolge anche un altro ruolo molto importante: rende evidente che tutto è destinato a frantumarsi, a disintegrarsi, prima o poi: è una legge di manifestazione di cui hanno parlato i più grandi saggi e filosofi. Non c’è nascita senza morte, creazione senza distruzione, affermazione senza negazione. I due poli sono legati tra loro, fluiscono perennemente l’uno nell’altro, eppure in questo ciclo c’è la possibilità del superamento, del passaggio spiralico a un livello “superiore”, all’ottava successiva: comprendere per trascendere. Sulla scia di queste osservazioni possiamo affermare che non c’è nessun costrutto che non possa e non debba essere messo in dubbio. Alla legge del “negativo” nulla può sfuggire.
L’importanza del negativo come banco di prova e motore del percorso umano è stata storicamente ribadita dal gruppo di pensatori afferenti sia pure in maniera critica alla filosofia del tedesco Hegel, ricca di influssi ermetici e teosofici: stiamo parlando della sinistra hegeliana. In tale corrente, cui tra l’altro apparterrà l’amato/odiato Karl Marx, troviamo un pensatore la cui riflessione merita senz’altro qualche attimo di attenzione: Ludwig Feuerbach. Il caro Ludwig disse una frase celebre, sfruttata dall’ultima EXPO milanese, che non rende del tutto giustizia al suo pensiero, ma che allude in qualche modo all’essenza del suo messaggio e al tentativo di compensare un idealismo esagerato: “l’uomo è ciò che mangia”. Certamente potremmo replicare a tale affermazione nello stesso modo in cui obiettò un giorno una mente acuta: bene, allora di che cosa si ciba l’anima? Ad una comprensione più profonda di quello che pare semplicemente la provocazione irriverente di un crudo materialismo giungeremo però attraverso un’altra via: la critica alla religione presentata nelle sue opere, L’Essenza della Religione e L’Essenza del Cristianesimo.
Nell’Essenza della Religione Feuerbach asserisce che “il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza è la natura”. L’uomo pensa a Dio come a qualcosa di indipendente, ma in realtà giunge a tale pensiero perché si rende conto di essere dipendente da qualcosa che è indipendente rispetto ad esso: la natura. Tutte quelle caratteristiche che l’uomo ha proiettato su Dio, dice il nostro autore, in realtà appartengono alla natura stessa: “ma qual è la potenza che si manifesta nella violenza del tuono, nella forza del cavallo, nel volo dello sparviero, nel corso inarrestabile delle Pleiadi? La forza della natura”. La religione più autentica è il culto puro e genuino della natura stessa.
Qui l’allievo si distanzia dal maestro: se per Hegel la natura era l’alienazione dello Spirito, ovvero lo Spirito che diventa oggetto per auto-rispecchiarsi, per Feuerbach lo Spirito è proiezione astratta e tutta mentale di una realtà vivente e concreta. La natura è come l’uomo, carne e sangue, forza nuda e diretta, energia pura, e le astrazioni sono pure speculazioni logiche che da essa traggono linfa, non il contrario. “tutte le deduzioni del mondo da Dio, della natura dallo spirito, della fisica dalla metafisica, del reale dall’astratto si mostrano per quello che sono: giochi logici”.
A questo punto il lettore avrà voglia di protestare: ma la vita, la natura, il mondo, devono pur avere qualche origine! Errore! Esclama imperioso Ludwig. L’origine della vita è un mistero che non si può dire, e invano l’uomo si arrovella con inutili parole per dipanarlo.
Dio non ha creato la natura: la natura ha spinto l’uomo a creare Dio!
Ma perché l’uomo avverte tale spinta? Perché considera la natura come se stesso: una persona che agisce secondo certi criteri. L’uomo ha antropomorfizzato la natura: essa è buona o cattiva, secondo la sua interpretazione e i suoi bisogni.
Nella natura l’uomo ha proiettato tutto ciò che gli appartiene. Ovunque guardi l’uomo non vede altri che se stesso.
L’Essenza del Cristianesimo ribadisce con forza il concetto: la teologia è in realtà antropologia. Tutto quanto che l’uomo ha messo in Dio, in realtà gli appartiene. Togliendolo a se stesso, l’uomo ha acuito la propria sensazione di impotenza.
La religione va vista per quello che è: uno specchio che aiuta l’uomo a vedersi. Uno specchio che nel momento in cui viene compreso perde la sua utilità. Eppure ciò non toglie che abbia avuto un grande valore, quando l’uomo era incapace di guardare direttamente alla propria coscienza. L’uomo ha proiettato fuori di sé quanto gli apparteneva, perfezionando tale conoscenza, pur senza avvedersi di come gli fosse intima e originaria. Feuerbach chiama tale proiezione alienazione religiosa, da alienus, altro da sé. Niente è più alieno all’uomo di se stesso: la sua essenza, la sua origine, è ciò che gli appare più distante, più lontano, misterioso, indecifrabile, il grande mistero dell’universo.
Eppure tale sforzo esteriorizzante gli ha concesso di approfondire la visione di sé, e capire che quel Dio lontano è l’uomo stesso.
Perché l’uomo religioso ha sempre messo nulla in sé, e tutto in Dio? Perché in realtà ciò soddisfa il suo bisogno di appagamento. Il Dio più grande è il Dio del più vorace. Io sono nulla, ma il mio Dio è sempre più potente, magnifico, glorioso del tuo. L’umiltà del credente va capovolta, è in realtà orgoglio e presunzione.
Ma secondo Feuerbach non tutte le religioni sono uguali.
“La misura del tuo dio è la misura della tua intelligenza”.
Il cristianesimo si presenta come la massima evoluzione possibile della religione: nel Dio dell’amore l’uomo ama in maniera sconfinata se stesso, senza porre limiti alla propria essenza. Nell’amore cristiano egli accetta tutto di sé, virtù e vizio, luci e ombre, grazie e violenza, fede e dubbio, gioia e peccato. Nulla è meno meritevole di essere amato, e ha meno diritto di esistere. Il cristianesimo è la religione che restituisce l’uomo a se stesso.
Il problema dell’esperienza religiosa resta però il fatto che l’uomo adotta pur sempre un atteggiamento passivo, succube della sua stessa proiezione, di quel Dio che egli ha postulato come attivo, creatore, giudice, ecc., e di cui è alla mercé.
Per questo suo limite intrinseco la religione è destinata a essere presto superata: la religione è la preistoria della filosofia, la teologia è l’antenato dell’antropologia. L’uomo prima o poi si renderà conto che “non è Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio”; si renderà conto che ha negato il mondo concreto per proiettarlo in un altrove che non esiste. Conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli dei, recitava il motto di Delfi. Feuerbach ha invertito l’ordine degli addendi, ma il risultato non cambia.
“Se coloro che vi guidano vi dicono: Ecco il Regno (di Dio) è in cielo! Allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: E’ nel mare! Allora i pesci del mare vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi”.
Il cosiddetto ateismo-panteismo che fu già di eretici conclamati e condannati con veemenza quali Bruno o Spinoza echeggia con forza in questo pensatore che si appella al corpo dell’uomo come via d’accesso privilegiata per la comprensione della realtà, come sosterranno altri antihegeliani forse più famosi, del calibro di Schopenhauer o Nietzsche.
In nessuno di questi casi si tratta di volgare illuminismo, volto a negare la natura di un fenomeno profondamente radicato nell’esperienza umana, quale il sentimento religioso. D’altra parte la repressione comporterebbe semplicemente un rinvio del problema. Si tratta di un tentativo di comprensione, che rintraccia le radici genealogiche di un complesso di idee innestate da tempo immemorabile nella psiche umana. Il lavoro di scavo rende l’uomo autocosciente dei meccanismi che lo agitano quasi fossero fili di un burattino. La filosofia dell’avvenire sarà umanesimo: riflessione che parte dall’uomo, riconducendo al suo essere concreto, alla sua carne e alle sue passioni, ciò che egli aveva smaterializzato e rinchiuso in immaginari regni invisibili. Un’analisi smaliziata e coraggiosa dell’uomo non può che partire da questo punto e ricondurlo alle istanze reali che condizionano la sua esistenza, e che giacciono dentro di lui, piuttosto che fuori di lui. Sembra interessante il binomio instaurato tra spiritualismo e materialismo: Feuerbach da buon tedesco protestante nega all’uomo il libero arbitrio e persino l’anima, ma a partire dalle proprie credenze religiose, dalle idee, dai bisogni, dal corpo, egli può almeno cominciare a conoscersi e comprendersi. Ed è qui che nasce la spiritualità.
L’idea che questo sia soltanto il primo passo di una ricerca che lo stesso Feuerbach in realtà ha soltanto abbozzato è suggerito da un altro tipo di considerazioni che il nostro autore ci propone: l’essenza della religione, che ormai abbiamo compreso essere l’essenza dell’uomo, non è affatto identificabile con il singolo uomo. Il grande mistero dell’uomo è che l’uomo solitario non è affatto un uomo, in un certo senso. L’essenza dell’uomo sta nell’umanità. Umanità persa, alienata, umanità che è il più grande degli enigmi, ancora tutta da scoprire. L’uomo in fondo crede di sapere cos’è l’uomo, ma in realtà ignora cosa sia umano: ecco perché il filosofo scrive: ‘ solo alle future generazioni sarà concesso di pensare, parlare e agire in modo puramente ed autenticamente umano ‘. L’oltreuomo di Nietzsche, che sta all’uomo come l’uomo sta alla scimmia, sembra quasi prefigurato in queste parole.
Come è scritto nel Vangelo di Tommaso:
I molti diverranno una cosa sola. (L’essenza dell’uomo non sta nel singolo ma nell’umanità, commenterebbe Ludwig).
Marx ha scritto: “la religione è l’oppio dei popoli”; ma anche l’oppio ha una sua funzione. Nel percorso della coscienza, ogni tappa è utile e necessaria. Idealismo e materialismo continuano la propria danza, a volte sorprendente, nel gioco degli opposti. Quel che conta è non fare del passo di danza il traguardo, cadendo nell’errore della dogmatizzazione, e decretando la morte della danza stessa. Danza che continua a mutare, come ogni cosa, trapassando in nuove danze, più artistiche, libere, armoniche. Non c’è opposto che non debba sempre essere ribaltato, e non c’è passo che non trovi la sua compensazione nel ritmo della Vita.
Valentina C.
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