Il filosofo Leibniz è stato un inguaribile ottimista, il suo pensiero può essere sintetizzato nel motto: “quello in cui viviamo è il miglior mondo possibile”. Gottfried Willhelm Leibniz nacque a Lipsia, in Germania, nella regione geografica della Sassonia, nel 1646. Fin dall’infanzia, Leibniz attinse alla fornitissima biblioteca paterna, notaio e professore di filosofia morale all’Università, morto però quando il figlioletto aveva solo sei anni. Nella sua formazione, Leibniz rimase colpito in particolare dalla dottrina aristotelica delle categorie, che divideva le cose del mondo in concetti e schemi, elaborando una sorta di modello necessario per comprendere la realtà. Nel 1663 discusse la tesi “Disputatio metaphysica de principio individui” che già introduceva alcuni argomenti che avrebbe sviluppato successivamente. Dopo alcuni approfondimenti nel campo della matematica e della giurisprudenza, nel 1667 lo studioso tedesco entrò al servizio di Johann Philipp von Schonborn, principe elettore ed arcivescovo di Magonza. In questa città, attualmente chiamata Mainz, diventò magistrato dell’Alta corte di appello, contribuendo alla stesura di un nuovo codice legislativo. In parallelo, si dedicò allo studio della fisica e ad approfondire la teoria del moto, cercando nel contempo di ottimizzare i pregressi studi teologici con la speranza di poter essere uno dei protagonisti di un’eventuale riunificazione delle Chiese cristiane. Leibniz si distinse anche come mediatore politico, trasferendosi a Parigi nel 1672 e cercando di arginare le mire espansionistiche del re di Francia Luigi XIV, per mantenere la pace e conservare gli equilibri stabiliti dalla pace di Westfalia, atto finale della sanguinosa guerra dei Trent’anni che aveva dilaniato il continente europeo. Ed è proprio a Parigi che Leibniz si confronta con alcuni filosofi contemporanei, come Arnauld e Malebranche, cominciando a delineare la sua concezione di “sostanza individuale” che poi confluirà nella teoria della “monade”. Negli anni successivi, sempre impegnato nell’attività di mediazione politica, Leibniz si trasferì a Londra dove incrementò i propri studi scientifici, tanto che fu accolto tra i membri della Royal Society, l’Accademia inglese delle scienze. Il pensatore tedesco iniziò ad elaborare una forma di calcolo infinitesimale, più o meno nello stesso periodo degli studi condotti da Isaac Newton, che anni dopo avrebbe provocato un’aspra polemica tra i due studiosi in merito alla paternità della scoperta del citato calcolo. Negli anni successivi, si trasferì al servizio dei principi di Hannover, continuando i propri studi scientifici e compiendo numerosi viaggi diplomatici in Austria ed in Italia. Nel nostro Paese soggiornò in varie città del nord e poi a Roma e a Napoli. Il papa gli propose di diventare custode della biblioteca vaticana, ma Egli rifiutò per non precludersi la possibilità di una ricerca scientifica libera che di certo la Chiesa Cattolica avrebbe osteggiato. A Napoli si distinse per alcuni studi sul famoso vulcano della metropoli partenopea, il Vesuvio, cominciando una serie di ricerche geologiche che sarebbero state raccolte in una completa indagine sulla genesi della Terra, l’opera “Protogaea”. Negli ultimi anni della sua vita, tornato in Germania, si dedicò a favorire l’istituzione di nuove accademie scientifiche: nel 1700 fu istituita l’Accademia prussiana delle Scienze con sede a Berlino, mentre non andarono a buon fine i tentativi di creare istituti simili a Dresda e a Vienna. Durante il soggiorno a Berlino compose i “Nuovi saggi sull’intelletto umano”, speculare al “Saggio sull’intelletto umano” di John Locke, consistendo in una risposta razionalista alle tesi dell’empirista inglese. Negli ultimi anni della sua vita, il filosofo si divise tra Hannover e Vienna, dove acquistò un notevole prestigio, fino a diventare consigliere di corte dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Qui intraprese un’intensa corrispondenza con il matematico Goldbach (autore della famosa “Congettura”, uno dei problemi irrisolti della teoria dei numeri) ed instaurò anche un felice dialogo con il principe Eugenio di Savoia, a favore del quale scrisse i “Principi della natura e della grazia”, un testo divulgativo delle proprie idee sulla metafisica. Riuscì perfino a stabilire rapporti con lo zar Pietro il Grande, avendo successo nell’intento di creare un’Accademia delle scienze a San Pietroburgo che però sarebbe stata inaugurata solo dopo la sua morte. Nel 1710 Leibniz fece pubblicare, inizialmente in forma anonima, il suo testo filosofico più ampio, i “Saggi di teodicea”, sulla questione morale presente nel mondo e la sua conciliabilità con un Dio creatore buono ed onnipotente, mentre nel 1714 completò l’opera “Monadologia”, pubblicata postuma nel 1720, compendio del suo pensiero più maturo sulla composizione dell’universo. Il pensatore morì nel 1716, malato di gotta e deluso per il comportamento del principe di Hannover, divenuto re di Inghilterra con il nome di George I che, non solo rifiutò di portarlo con sé a Londra, ma lo costrinse a rimanere in Germania per completare prima possibile l’opera sulla storia dei Welfen, nonostante Leibniz avesse redatto utili e circostanziate perizie per dimostrare la legittimità del suo diritto di successione.
Per cominciare a delineare i temi principali cari a Leibniz, è forse opportuno partire dal concetto di “sistema”. Una delle sue preoccupazioni più pressanti fu appunto quella di elaborare i vari elementi delle sue elucubrazioni teoriche sulla realtà del mondo , dell’uomo e di Dio verso un ordine unitario ed organico. Pertanto, il suo approccio culturale può ritenersi di carattere “enciclopedico”, mosso da un’esplicita tensione all’unificazione sistematica di eterogenei aspetti di diverse discipline. I suoi interessi spaziarono dalla matematica alla fisica, dalla logica alle scienze naturali, dalla metafisica alla teologia, dal diritto alla storiografia, evidenziando una straordinaria competenza anche nel diritto e nelle relazioni internazionali. In realtà a Leibniz si riconosce il primo momento dell’aspirazione enciclopedica dell’età moderna sia in senso logico, che ontologico-metafisico, partendo, comunque dai “principi” basilari della tradizione filosofica. Infatti, nel breve trattato “Primae veritates”, Leibniz distinse cinque principi fondamentali da cui partire per ogni tipo di speculazione filosofica: 1) il principio di identità e di non contraddizione; 2) il principio di inerenza del predicato al soggetto; 3) il principio di “ragion sufficiente” (nulla è senza ragione, nessun effetto è senza causa); 4) il principio di identità degli indiscernibili (in natura non possono esistere due cose singolari differenti solo per numero); 5) il principio di convenienza (il concetto completo di sostanza individuale deve per forza implicare tutti i suoi predicati passati, presenti e futuri). I predetti cinque precetti furono integrati nei “Saggi di Teodicea” dall’ottimistico “principio dell’armonia”, a seguito della formulazione della propria teoria in merito all’armonia universale.
Il fulcro della metafisica ontologica di Leibniz, come è noto, si basa sulla cosiddetta “monade”. Quando si parla di “monadi”, il filosofo si riferisce a tutti gli enti immateriali, intesi come sorgenti di energia e definiti dallo stesso studioso “punti metafisici”. Pertanto, la sostanza individuale o “monade” diventa nella logica di Leibniz il centro di inerenza di tutti i predicati veri e riscontrabili, cioè sia delle verità di fatto che delle verità di ragione. Nella “monade” si raccolgono, seguendo tale linea interpretativa, tutte le “idee” o “rappresentazioni”. Nel testo “Monadologia”, Leibniz definisce la monade come “una sostanza semplice che entra nelle composte; semplice, cioè senza parti”. E successivamente, nell’opera “Principi razionali” vi è un’aggiunta importante, in quanto il pensatore tedesco qualifica la monade come “un Essere capace di Azione”, operando la distinzione in semplice e composta (la prima senza parti, mentre la seconda risultante dall’unione di sostanze semplici). La grandezza della definizione sta nel fatto che Leibniz riesce a conciliare la semplicità assoluta con la pluralità dell’esperienza riscontrabile nella quotidianità. Seguendo tale ragionamento, il filosofo mette in relazione i punti metafisici come centri di forza con le monadi quali punti mentali, stabilendo di fatto un’analogia tra il mondo fisico ed il mondo mentale. Leibniz, pertanto, ritenne di aver ricondotto all’unità sostanziale la “res cogitans” e la “res extensa” della filosofia cartesiana, anche se per spiegare il principio di incomunicabilità tra le monadi dovrà formulare la dottrina dell’ “armonia prestabilita”. Quest’ultima elaborazione, sviluppata nell’opera “Discorso di Metafisica”, riguarderebbe la connessione organica di tutte le sostanze, sia quelle di ordine corporeo che quelle di ordine spirituale, stabilita da Dio. Per Leibniz ogni sostanza potrebbe apparire come un mondo intero e come uno specchio di Dio e, quindi, intimamente connesse secondo i principi dell’armonia prestabilita da Dio, il grande architetto dell’universo. Per quanto riguarda le argomentazioni sull’esistenza di Dio, Leibniz si rifà alla prova cosiddetta “ontologica” derivante dalla dottrina di Anselmo: secondo il principio di “necessità”, la realtà deve essere ricondotta ad una “Unità primitiva” e “Sostanza semplice originaria” che non implichi nessuna limitazione, nessuna negazione e, di conseguenza, nessuna contraddizione.
Una delle teorizzazioni più famose di Leibniz è quella definita del “migliore dei mondi possibili”, troppo spesso fraintesa e liquidata come ingenua e addirittura ridicola. E’ noto quanto sarcasmo provocò tale dottrina nel salace Voltaire che la ritenne colpevole di eccessivo ottimismo, in quanto, a suo dire, avrebbe ignorato l’esperienza del male e del dolore, fenomeni, invece, largamente diffusi nel mondo. In realtà, si tratta di una dottrina dalla marcata ispirazione ontologico-metafisica che si basa sulla perfezione di Dio e sulla struttura dell’ “essere possibile”, cardini importanti nel sistema complessivo del pensatore tedesco. Cercando di capire il fulcro della teoria del “migliore dei mondi possibili”, si intuisce che essa sia stata sviluppata proprio per dare una risposta al problema del male, sulla scorta del principio di ragion sufficiente. Seguendo tale principio, si arriverebbe alla conclusione che Dio abbia una ragione per creare il nostro mondo e che questa consisterebbe nella “massimizzazione del bene”, in relazione all’intero sistema universale e rispetto a tutti i mondi possibili. Alcuni critici osservarono che questa dottrina si poneva in contraddizione con la prova ontologica dell’esistenza di Dio, in quanto gli si attribuiva “una scelta necessitata”. Leibniz cercò di risolvere la questione, distinguendo tra necessità metafisica e necessità morale ed attribuendo la scelta del migliore dei mondi possibili alla seconda categoria, affrancando Dio dall’obbligo metafisico di creare il nostro mondo. Leibniz distinse in Dio una volontà antecedente, che vuole il bene in sé ed una volontà conseguente che vuole il “meglio”: la creazione del mondo deriverebbe dalla seconda tipologia di volontà. Mentre Spinoza aveva cercato di risolvere il problema della realtà, identificandola con Dio (panteismo), nel sistema di Leibniz, si intuisce un sistema di rigorosa necessità.
Alla predetta dottrina si lega anche la nozione di libertà, in stretta relazione con il rapporto di dipendenza ontologica del mondo da Dio. Per Leibniz la libertà richiede tre condizioni: in primo luogo l’intelligenza, per cui un atto libero deve essere anche compreso da chi lo compia; la spontaneità, come assenza di coazione esterna; ed infine la contingenza, come assenza di necessità metafisica. Il filosofo tedesco, tuttavia, riteneva alquanto illusoria la libertà di scelta, in quanto troppo spesso inficiata dall’influenza delle percezioni inconsapevoli. Come si diceva nella nota biografica iniziale, Leibniz fu anche un valente giurista, attivo nella elaborazione di nuovi codici legislativi. Secondo la sua visione etica, le norme morali sono presenti nell’uomo non come veri e propri principi innati, ma come inclinazioni. E’ celebre la sua affermazione contenuta nei “Nuovi saggi”: “Dio ha dato all’uomo istinti che portano direttamente e senza ragionamento almeno a una parte di ciò che la ragione ordina”. Nella nozione di giustizia, Leibniz comprende soprattutto i tre principi di matrice ulpianea: 1) non ledere alcuno; 2) dare a ciascuno il suo; 3) vivere in modo onesto. Nella sua visione, questi tre principi basilari sono sovrastati dal concetto di equità, fino ad arrivare alla “carità”, precetto religioso e morale che non può muovere azioni giudiziarie coercitive, implicando invece sentimenti etici come quello della gratitudine o dell’elemosina. Come risolve Leibniz il problema dell’esistenza del male morale? Secondo lui, Dio vuole preservare il libero arbitrio dell’uomo, ma si servirebbe del male, o dell’assenza di bene anche per realizzare un disegno buono ed armonioso. Nell’ottica di Leibniz, pertanto, la somma del bene prevale sempre su quella del male, anche se ciò non è di piena evidenza per gli uomini che non possono conoscere i progetti di Dio. Si tratta di una visione evidentemente ottimistica e molto criticata dai suoi contemporanei e dai pensatori successivi che, tuttavia, riesce a tenere in piedi anche i principi teologici della religione cristiana di derivazione agostiniana.
Il mondo, così come delineato da Leibniz, è armonioso: le cose portano alla grazia attraverso le vie stesse della natura. Collegando la propria visione filosofica ai suoi studi scientifici, il pensatore tedesco credeva che il nostro globo dovrà essere distrutto e riparato mediante processi naturali e meccanicistici, un modo di considerare i cicli dell’esistenza non molto dissimile da quanto prospettato da alcune dottrine orientali.
VIENI A CONOSCERE LA NOSTRA ORGANIZZAZIONE - Clicca sui loghi qui sotto -
SE TI E' PIACIUTO L'ARTICOLO CONDIVIDILO SUL TUO SOCIAL PREFERITO
QUALCHE PICCOLO CONSIGLIO DI LETTURA