Un curioso destino sembra segnare le fortune del pensiero di Baruch Spinoza, filosofo olandese del Seicento.
Nato in una famiglia ebraica i cui avi erano fuggiti alle terribili persecuzioni dell’Inquisizione spagnola, Spinoza è un pensatore assolutamente originale, eccentrico, che risente di diverse influenze di pensiero, rielaborate in maniera creativa in una grande visione metafisica.
Educato all’interno della sinagoga di Amsterdam, verrà a un certo punto rinnegato e additato come eretico, bandito con l’atto ufficiale di Cherem. Qualcuno tenterà persino di accoltellarlo. Da ebraici e cristiani di vario tipo gli verranno rivolte numerose accuse di ateismo e panteismo, sebbene la parola Dio pervada i suoi scritti. Ciò probabilmente avviene poiché le suo visioni risultano distruttive, eretiche, rispetto ai paradigmi standardizzati del pensiero religioso. Neppure per l’Olanda, terra di proverbiale libertà, accoglienza e tolleranza, le sue tesi risultano accettabili. Nonostante ciò, entrerà in contatto con numerosi pensatori dell’epoca, e attorno a lui si formerà un rilevante “circolo spinoziano”.Egli vivrà sempre di un modesto reddito dovuto all’attività indipendente e manuale di fabbricante e riparatore di lenti, permettendosi così il lusso dell’indipendenza di pensiero da Università più o meno prestigiose, le quali a un certo punto gli offrirono delle cattedre che seccamente rifiutò. Amava sigillare le sue carte in modo piuttosto poetico e intrigante: la scritta latina Caute, Prudenza, sormontata da una rosa, a racchiudere in modo enigmatico e affascinante una vita vissuta in modo pieno, e a tratti tormentato.
La condanna di fatto segnerà la sua esistenza.
Sulla sua filosofia si proietteranno le ombre lunghe dei più bigotti anatemi, che si levano sempre quando il comodo senso comune appare minacciato; proprio lui il cui nome segnava preludere a un ben diverso destino (il nome ebraico Baruch è traducibile come Benedetto).
Perché questa filosofia è stata maledetta?
Punto primo: per la sua critica della religione e dei testi sacri, comuni alle tre rivelazioni abramitiche, dunque l’Antico Testamento. In accordo con l’etimologia del termine, e come ha poi sottolineato Immanuel Kant, la parola “critica” non è sinonimo di giudizio negativo, come vorrebbe il volgo, ma si configura come esame approfondito delle caratteristiche oggettive di un determinato ambito.
In questo caso, egli è tra i primi a fornire un corretto metodo di interpretazione delle Scritture. Queste ultime non devono infatti essere interpretate secondo la soggettiva opinione dello studioso, o comparandola alle verità scientifiche ( si colloca in questo modo sul solco del pensiero galileiano).
Lo studio delle scritture deve essere scientifico in senso diverso: bisogna cioè analizzare la lingua utilizzata, le espressioni tipiche di quella lingua, il loro contesto storico, raccogliere elementi probatori sulla storia del testo e sulla vita, i costumi e lo stile dell’autore; le varie versioni del testo e la loro ricezione. Si tratta insomma di un approccio filologico che il Rinascimento italiano aveva introdotto sin dal Quattrocento sui testi classici e medievali, ma che solo Spinoza ha l’ardire di proporre riguardo alla Bibbia. Tal analisi linguistica, storica e letterariasembra però scardinare la sacralità e la soprannaturalitùà del testo biblico, negando ai profeti o agli autori del testo il loro carattere di “eccezionalità” rispetto a tutti gli altri scrittori.
Punto secondo: non solo le Scritture sono dei testi da analizzare in maniera oggettiva come tutti gli altri, ma il loro scopo è piuttosto circoscritto (e anche qui si accorda con l’idea di Galileo Galilei). Le Scritture hanno il solo scopo di condurre le masse all’obbedienza. La loro pretesa non è dunque la verità, o la conoscenza, ma la moralità. Religione e filosofia, teologia e scienza hanno ormai imboccato binari paralleli. Tali vie non sono necessariamente in contrasto: sono, più semplicemente separate, per motivi genetici, oltre che dal loro metodo e fine.
Basterebbero questi punti per condurre il nostro Benedetto sulla via della condanna, e in effetti è così, ma in realtà non abbiamo neppure toccato da lontano la potenza del suo pensiero, che investe la totalità della realtà dell’universo.
Cos’è la realtà? Come posso conoscerla? Millenni di filosofia si concentrano in queste domande, da lui focalizzate con precisione matematica nell’Ethica more geometrico demonstrata.
Qui parte da un’analisi che è ormai impostata sul metodo scientifico: si parte da assiomi generali da cui trarre conclusioni necessariamente vere in virtù delle premesse e del criterio dimostrativo. Tramite questo sistema Spinoza giunge all’asserzione che tutto ciò che esiste è Dio, e non esiste nulla al di fuori di esso, neppure il vuoto.
Questo perché ciò che veramente esiste, e merita dunque il nome di sostanza, ovvero ciò che non ha bisogno di altro per esistere se non della sua stessa esistenza, è solo ciò che è causa di se stesso (causa sui). Essa è dunque increata (il contrario implicherebbe contraddizione, come può ciò che è di per se stesso provenire da altro? e da cosa dovrebbe provenire? simili concetti sono stati affrontati sin da Parmenide ad Elea parecchi secoli prima di Cristo): i buddisti direbbero non nata, mentre i greci avrebbero detto imperitura. In quanto è senza inizio, la sostanza di conseguenza sarà senza fine: essa è eterna. Non possono esserci due, perché sarebbe anche questo contraddittoria; e per estensione la sua immutabilità è valida anche sul piano spaziale oltre che temporale, ammesso che la categoria spazio-tempo possa avere un qualche senso in rapporto alla sostanza, che risulta dunque infinita.
Tuttò ciò che esiste si colloca dentro la sostanza: pensieri, corpi, ma anche gli infiniti attributi che Dio possiede e che travalicano la limitata possibilità della mente umana di andare oltre il pensiero e l’estensione.
Ma qual è il problema di questa fine analisi logica e ontologica? Che la Sostanza è Dio, secondo Spinoza. C’è uno spiccato monismo, ma anche una forte nota di immanentismo in questo pensiero: questo sembra colpire il Dio persona, il Dio trascendente delle religioni rivelate. Dio è natura, ed è allo stesso tempo madre e figlia di se stessa, se considerata dal punto di vista degli attributi cause dell’universo, oppure dal punto di vista degli effetti. Non c’è nient’altro. Da qui l’accusa di panteismo.
Ma se pensate che sia finita, accomodatevi.
Questo Deus sive Natura presenta altre interessanti caratteristiche: innanzitutto, è regolato dalla sola necessità divina, ovvero dalle leggi della sua natura, che appunto non possiede nulla di antropomorfo. Ma ciò significa che egli stesso rispetta rigidamente il determinismo delle leggi naturali. Non esiste l’eccezione alla regola: non esistono i miracoli. Diò non può trasgredire al suo stesso funzionamento, sarebbe assurdo. Si svuota di senso anche la preghiera. Se Dio è fatto in questo modo, la preghiera appare ridicola.
Perché la sostanza si manifesta? Altro punto scandaloso: Dio non ha nessun fine. Non vuole qualcuno che lo lodi, che gli faccia compagnia, non ha creato per la sua gloria, eccetera eccetera. Tutti i discorsi religiosi sul finalismo del creato sono una proiezione della psiche umana, come osserverà in maniera più irriverente Feuerbach. Non esiste il concetto di perfezione, perché non c’è un più o un meno verso cui le cose tendono; non c’è bello o brutto, cattivo o buono. Semplicemente le cose sono, e questo è tutto. Da qui il giudizio sulla conoscenza dell’uomo, limitata a causa della sua posizione in un punto specifico della sostanza. La libertà dell’uomo in questo contesto parrebbe inesistente, situato in un sistema naturale per definizione deterministico. Eppure nel prendere consapevolezza di ciò, l’uomo è già più avanti. Si rende conto che le sensazioni sono frammentarie, confuse, come le singole passioni di cui è schiavo. La conoscenza razionale della scienza, che lega gli elementi tra loro, restituisce una visione più ampia e fondata della realtà; ma il salto decisivo è quello che coglie l’unità del Dio-Sostanza, la sua eternità e necessità. L’uomo che si mette dal punto di vista di Dio, che coglie le cose con un occhio che scruta dall’alto, sub specie aeternitatis: è l’omo che sperimenta l’amore intellettuale, l’amore di cui hanno parlato tanti mistici, letterati e filosofi. L’uomo, pur restando apparentemente al suo posto, può diventare Dio.
Questo sbocco mistico apparentemente improvviso in un sistema astratto, caratterizzato dalla cruda logica, non deve stupire. Difatti a uno sguardo attento si rivela come il tratto tipico di quei grandi pensatori soventemente incompresi. L’unità nella contraddizione, incomprensibile dalla ragione.
A questa dimensione stoica, dell’uomo che segue il suo destino sapendo di non poterlo modificare e per questo diviene interiormente libero, segue la dimensione edonistica:”niente proibisce di divertirsi se non una torva e triste superstizione”. Ultimo strale di uno spirito libero contro i legacci di una morale punitiva e invidiosa.
Chiudiamo perciò con la seguente parafrasi di una frase spinoziana: “quanta maggiore è la Letizia di cui siamo affetti, maggiore è la partecipazione alla Natura divina”
Scritto da: Valentina C.
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