La Bhagavadagītā è uno dei testi sacri dell’india e per la sua importanza è stato anche definito il Vangelo d’Oriente
Si tratta di un libro di altissimo spessore filosofico e religioso, che in realtà costituisce il VI capitolo del Mahābhārata, il grandioso poema epico su cui si fonda la cultura indiana.
La Bhagavadgītā, o Canto del Beato, custodisce una saggezza antichissima, risalente al V secolo A. C. Essa ha infatti raccolto e trasmesso fino a noi la filosofia dell’azione pura, o Karma yoga. In un mondo immerso nel movimento e nel conflitto, in cui l’idea di contemplazione pare distante e astratta, la dottrina dell’agire senza agire ci indica una via per riaccostarci al Divino.
Il Mahābhārata è un testo che parla di guerra. Come avviene anche in un testo classico dell’Occidente, l’Iliade, non si tratta di una guerra qualunque: è una lotta fratricida, una guerra civile tra due stirpi della medesima genia, di cui una ha usurpato per brama di potere quella legittima, ovvero la discendenza dei Pandava. In questa guerra viene sollecitato a partecipare il dio Krishna, che porta con sé i suoi guerrieri: egli lascia la libertà ai contendenti di scegliere tra lui e i suoi guerrieri, che dunque si combatteranno su posizioni opposte.
All’interno di questo contesto s’inserisce la storia di Arjuna dei Pandava, prode guerriero che si accinge a lottare contro il suo stesso sangue, contro i parenti e gli amici con i quali fino a poco tempo prima aveva vissuto e goduto delle gioie della vita. Krishna, il “Beato”, gli tocca in sorte come auriga. Arjuna appartiene alla casta degli kșatriya, i guerrieri: il suo karma-dharma, il suo dovere-compito, è quello di combattere. Ma proprio mentre si trova nel momento decisivo in cui occorre sferrare l’attacco, Arjuna viene colto dal dubbio.
Come colpire i propri fratelli, con quale coraggio? Forse quello che viene spacciato come coraggio è in realtà egoismo, insensibilità, superficialità? Da queste domande e da questo momento nella vita di Arjuna nasce il dialogo con Krishna, il dio-guerriero, dialogo su cui è incentrata l’intera opera.
Cos’è coraggio? Cos’è compassione? Davvero è lecito uccidere i propri fratelli? Sarà giusto combattere una guerra fratricida? Perché dubitiamo? Ma soprattutto, con quale spirito bisogna combattere?
Arjuna conosce i suoi compiti: egli è un guerriero e non può tirarsi indietro, ma la sua coscienza trema. Cosa si agita nel fondo del suo cuore? Codardia o pietà?
Invaso dalle orde del dubbio, saggiamente Arjuna si rivolge a un Principio superiore, incarnato dal Re della lotta, Krishna. Il dio lo aiuterà a guardare dentro di sé, a conoscere le proprie titubanze, lasciandogli infine la dignità e la libertà di decidere se combattere o meno. La scelta infatti è sempre umana: il Divino indica, l’Uomo decide secondo coscienza.
Mentre sul campo di battaglia le vite di numerosi cavalieri vengono falciate e il sangue scorre, Arjuna non ha il coraggio di sguainare la Spada. Nel vedere la sua gente si dispera: come può esserci Vittoria nella distruzione? Egli diviene preda della tristezza e si abbandona ai moralismi, dimenticando che quegli stessi parenti che ha timore di uccidere incarnano l’avarizia, la brama di potere, l’invidia che hanno dato inizio alla guerra civile. Krishna esorta Arjuna a riconoscere che la sua non è pietà divina, ma sentimentalismo emotivo. Un guerriero non può cedere alle pulsioni emotive, poiché deve essere allineato con i suoi principi spirituali. Compatire le forme individuali non discende da tale allineamento; inoltre, come dice Krishna, “non vi è mai stato un tempo in cui Io né tu né questi altri non siamo stati, né mai in futuro cesseranno di esistere”. La paura nasce dall’ignoranza metafisica, suggerisce il dio. Non si può davvero uccidere né essere ucciso, perché il guerriero non è mai nato né mai morirà, al pari dei suoi avversari. Lo Spirito infatti è immortale. Soltanto le sue caduche forme nascono e muoiono, ma l’uomo non deve scambiare la corda per il serpente: chi è Immortale non ha nulla da temere dalla Morte. Il corpo, i sentimenti, i pensieri stessi sono rivestimenti esteriori della Fiamma Imperitura, che non può essere toccata in alcun modo. Ma l’attaccamento ai suoi involucri e l’identificazione con lo spettacolo della guerra causa l’ignoranza, che a sua volta conduce alla Paura della Morte.
Anche Plotino in Occidente scriverà che la morte, le guerre, i dolori sono come le storie rappresentate sui palcoscenici dei teatri: illusioni. I morti, in realtà, continuano a incarnarsi in altri corpi, e a vivere. Si tratta di una dura lezione, quella che Krishna e Plotino rammentano, in una società e in un’epoca del tutto identificate con l’aspetto materiale e mentale. L’ignoranza umana è destinata a rivelare, prima o poi, la Realtà che si cela davanti ai nostri occhi addormentati: i corpi sono momentanei, l’Essere è indistruttibile.
Alla luce di tali insegnamenti, il guerriero viene invitato a combattere. In primo luogo va combattuta la paura che si oppone al suo dovere: difendere la Giustizia. Questo è infatti l’unico scopo della lotta. Il guerriero non combatte in maniera personale, per se stesso, ma per uno scopo più nobile, per una Legge Universale. Quando la lotta degenera e diviene strumento dell’adharma, dell’oblio, della confusione della coscienza, il Principio divino si manifesta incarnandosi: Krishna è una di queste manifestazioni, o avatara. Anche Gesù qualche secolo dopo manifesta il Principio divino e ribadisce: “non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”. Questa guerra inevitabile e necessaria è tanto esterna quanto interna. Così la Jihad del Corano non è una fantomatica conquista degli infedeli, ma la lotta della coscienza contro le parti di se stessa che la bloccano.
In che modo opera il guerriero in questa lotta cosmica tra verità e ignoranza? Come distaccarsi da paure, ansie, dubbi, che come un velo oscurano e ottundono le percezioni dello Spirito?
La risposta di Krishna è: lasciando andare attaccamenti e desideri. L’unica cosa a cui il guerriero deve pensare è l’azione, non i suoi risultati. I frutti dell’azione gli devono essere indifferenti: fama e ricchezza, disonore e sconfitta non lo riguardano, se egli è consapevole di aver agito con totale Presenza per la Causa.
“Compi l’azione rinunciando all’attaccamento: sii eguale nel successo e nell’insuccesso. Il perfetto equilibrio interiore che ne risulta si chiama yoga”.
A qualificare il guerriero concorrono due fattori: la purezza del movente, che non può essere egoistico, e la giusta modalità dell’azione, cioè il come agire, ovvero senza attaccamenti e preoccupazioni sul risultato, sia esso positivo o negativo.
Il guerriero agisce senza agire, opera e combatte nel mondo, sulla Terra, ma con lo sguardo rivolto al Cielo. Così dev’essere l’operato di ogni Uomo che lotta con Coraggio per una Causa: puro e senza attaccamenti.
La vera lotta è dominare se stessi: muoversi nel mondo, tra gli oggetti e le persone avendo posto una giusta distanza tra sé e i propri desideri, le proprie passioni, i propri pensieri. Le correnti energetiche che sospingono in una direzione o nell’altra, verso un desiderio o un conseguente attaccamento, debbono essere dominate e ri-orientate in maniera consapevole. Non si tratta di un mero autocontrollo esteriore o di inibizione, ma di conoscenza delle proprie energie. Soltanto l’assenza di identificazione con i contenuti della mente rende possibile un’azione distaccata, realmente libera, non sollecitata da fattori esterni, né da considerazioni mentali o sentimentali, ma da una Visione libera da vincoli egoici.
I nemici sono interni: sono gli istinti, i desideri, i pensieri, le abitudini, e tutti quegli enti psichici ed emotivi per loro natura destinati alla morte che ci paiono amici e familiari, ma che in realtà sono la causa della confusione, e che riproducono fuori di noi una guerriglia analoga a quella interiore. Il guerriero non può commuoversi dinanzi a quanto va abbattuto; colui che si collega al Centro dell’Essere non ha paura di morire recidendo i legacci che lo imprigionano, o distruggendo le forme con cui ha familiarizzato.
Il Karma yoga insegna che tale battaglia ha luogo in ogni istante e in ogni contesto; che la migliore arma è l’azione pura. Rinunciare all’azione per la contemplazione non sempre è possibile; non lo è in certe fasi della vita, in certe società, in certi periodi storici. Spesso la fuga dal mondo è persino controproducente: si crede di fuggire da certi attaccamenti, e invece ce li trasciniamo sempre appresso, nell’eremo, in montagna, nel deserto. Per tale motivo Krishna insegna ad affrontare senza indugi i problemi della vita e della coscienza: la rinuncia è vile per un essere che intende porsi come autocosciente. Il guerriero deve agire per modificare le cose, per cambiare concretamente l’ambiente in cui vive, senza falsi fatalismi o pacifismi. Ma tale azione raggiunge il proprio scopo soltanto se depurata dalle scorie egoiche. Il soggetto che agisce non è più il desiderio, la passione, i sensi, le emozioni, la mente: nel Karma yoga l’attore è contemporaneamente il regista. Io sono colui che agisce soltanto quando “Io sono quello”, quando l’anima, l’atman del testo indiano, si accorge di essere il Brahman, lo Spirito che tutto compenetra.
Non si può sfuggire al proprio karma-dharma, alle proprie responsabilità, poiché il Cosmo ci presenterà prima o poi quanto temiamo di affrontare: l’unica possibilità è quella di prendere in mano il nostro destino, affrontando la lotta con dignità e coraggio, con la Spada della Conoscenza.
Valentina C.
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