Per Giordano Bruno, il valore di un uomo non sta nel possesso o nella capacità di imporre la verità; il valore di un uomo sta nella costante aspirazione alla verità: in quel forte spirare, in quell’eroico furore che è ardore e passione della verità e della luce divina. Il paludato professore, che vive in un mondo descritto una volta per tutte da Aristotele, il religioso settario, che – in nome e per conto di Dio – combatte i suoi simili, coloro che vivono nella cecità e perciò non raggiungono la condizione e la dignità di uomini (come vedremo, queste devono essere conquistate!). Il vero filosofo è un cacciatore: si spinge nei recessi più oscuri e umbratili della foresta, in traccia della sua preda. Inseguimento, milizia, bisogno costante di cacciare oltrepassando sé stessi. Necessario, in primo luogo, liberarsi dal sonno, dall’incantamento di Circe che imprigiona la grande parte dell’umanità. L’uomo crede di essere desto, crede di avere occhi per vedere, ma la sua anima è in stato di oblio.Tale tensione comporta un processo di interiore trasformazione, esplicitamente descritto nel mito. Atteone – colui che rappresenta in figura «l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza» – si avventura nei luoghi più inaccessibili delle selve, dove pochi osano arrivare.
L’eroe tebano Atteone, nipote di Cadmo, addestrato all’uso delle armi dal centauro Chirone, si trovò a vagare durante una battuta di caccia per un bosco che non conosceva. Egli è preceduto dai propri cani («i mastini e i veltri slaccia Il giovan Atteon»); i veltri stanno per le facoltà intellettuali e i più forti mastini per la volontà. E improvvisamente Atteone scorge un riflesso nell’acqua: è quanto di più bello mente umana o divina possa contemplare. È la nudità di Diana, l’ombra che la sublime divina luce (l’universale Apollo) proietta nella materia e nel mondo delle cose visibili. Il destino lo condusse nella grotta dove la dea Diana, stanca di cacciare, faceva il bagno assieme alle ninfe sue compagne. La vergine, che orgogliosamente e sdegnosamente si sottraeva a ogni sguardo, fu contemplata nella sua nudità da Atteone. Egli posò il suo sguardo sul corpo di Diana – la dea della caccia, la dea lunare, la Natura stessa nella sua indicibile bellezza. Arrossendo e adirandosi in volto per l’oltraggio subito, Diana gli spruzzò dell’acqua in viso, trasformandolo in cervo e impedendogli di riferire ciò che aveva visto.
Scappando, Atteone giunse ad una fonte dove, specchiatosi nell’acqua, si accorse del suo nuovo aspetto. Ma i suoi stessi cani ora lo inseguivano. Fu così che il “gran cacciator divenne preda”. Il valentissimo cacciatore Atteone fu preda dei suoi cani, che, aizzati dagli amici e compagni di caccia, lo sbranarono. Pur consapevole di quanto stava accadendo, Atteone non fu in grado di proferire parola umana e di farsi riconoscere.
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovan Atteon, quand’il destino
Gli drizz’ il dubio ed incauto camino,
di boscareccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia,
Che veder poss’il mortal e divino,
In ostro ed alabastro ed oro fino
Vedde; e ‘l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch’a più folti
luoghi drizzav’ i passi più leggieri,
ratto voraro i suoi gran cani e molti.
I’ allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi a me rivolti
Morte mi dàn con morsi crudi e fieri.
La metafora della caccia, onnipresente negli Eroici Furori, si consolida nel sonetto su Atteone. Atteone stesso, secondo l’interpretazione di Bruno, è l’«intelletto», o la più elevata capacità razionale dell’uomo, che tenta di «catturare» , ossia di conoscere, la sapienza divina o verità, e così a motivo della sua identità con essa, tende a vedere la Bellezza divina. Nella Bellezza egli vede sapienza o verità come manifestazione dell’Essere divino in sè. Atteone è il simbolo efficace o addirittura denominativo della decisione dell’uomo di osare di penetrare nella sfera delle ombre e degli enigmi, nella «selva» delle aporie che stanno davanti alla visione nella Bellezza assoluta come manifestazione della Verità, simbolo dunque dell’«intelletto eroico» mosso dall’amore, che vorrebbe collegarsi vedendo-pensando col «primo vero», con la «verità assoluta». La «morte» attraverso autoriflessione (i pensieri «rivolti a me») appare come la vera vita dell’uomo dalla quale soltanto la sua vita nell’ombra, nella selva, o nella finitezza delle immagini diventa possibile come ragionevole. La «morte», dunque, come autoalienazione dell’uomo lo conduce, trasformandolo, proprio al suo vero Io.
Fonte: https://luigibonetu.wordpress.com/2017/08/19/il-mito-di-atteone-in-giordano-bruno/
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