Quella che mi appresto a descrivere è la tecnica fondamentale del sapere dei fachiri i quali, nonostante non abbiano alcun tipo di parentela con i facoceri, sono individui di grandissima astuzia e ferocia, spesso capaci di ridere sino alle lacrime delle cose più turpi e volgari, così come di quelle più tragiche.
Un fachiro è un individuo che ha capito a fondo il meccanismo fondamentale sotteso a qualunque esperienza di dolore e che, di conseguenza, ha imparato a interferire con esso, deviandolo per piegarlo ai propri fini o, addirittura, bloccandolo del tutto.
Tale meccanismo si basa su alcuni elementi precisi che il bravo fachiro elenca nel seguente modo:
• Sofferenza;
• Paura;
• Morte;
• Autocommiserazione;
• Indulgenza;
• Senso di colpa;
• Sacralità;
• Consapevolezza.
Tutto ha inizio con un fatto di vita che porta l’individuo in una situazione di dolore o, più in generale, di sofferenza. Può trattarsi di una malattia, di un incidente, di un lutto, di un’offesa subita. In ogni caso, di qualcosa capace di scaraventare la singola individualità dentro una situazione nella quale il suo “centro rettile” possa prefigurare un incombente pericolo di morte (detto anche “primo cervello” o archipallium, il centro rettile è un’entità notoriamente poco ragionevole e che non conosce per nulla le mezze misure).
Qualunque accadimento potenzialmente nocivo è capace di far questo, essendo del tutto indifferente il suo reale grado di pericolosità o, addirittura, il fatto che sia rivolto contro la sola dimensione psichica dell’individuo. Una semplice martellata su un dito, piuttosto che un’offesa verbale diretta sono elementi più che sufficienti a scatenare l’immediata reazione del cervello rettile.
Di conseguenza, quando una tal eventualità si manifesta, il “centro rettile” reagisce con la paura. Si tratta, senza dubbio, di paura della morte la quale, in modo del tutto evidente (almeno al fachiro), ha come effetto immediato e diretto quello di alimentare la sensazione di sofferenza. Questo, a sua volta, fa aumentare ulteriormente la paura che, in modo del tutto conseguente, torna ad incrementare il senso di sofferenza. Si badi, questo non è ancora definibile nei termini di un vero e proprio circuito nevrotico, giacché resta abbastanza lontano dalla confabulazione caratteristica di tutte le nevrosi, tuttavia ne costituisce un valido presupposto. E, in effetti, contemporaneamente a quanto descritto, la sofferenza sperimentata (fisica o psichica che sia) genera autocommiserazione (“povero me”, “ma perché proprio a me”, etc.) la quale spinge l’individuo verso l’indulgenza (verso il proprio, specifico modo d’indulgere) al fine di dimenticare la sofferenza e, quindi, il senso di morte incombente.
Il tutto crea un meccanismo atroce. Ora sì, un vero e proprio circuito nevrotico, ossia una sorta di macchina la quale consuma l’intera energia psichica disponibile, lasciando alla fine l’individuo in uno stato molto interessante, giacché profondamente influenzato dal senso di colpa. Uno stato nel quale l’individuo si ritrova a “leccarsi le ferite” e, proprio per effetto del senso di colpa, a considerare l’esperienza appena vissuta come qualcosa di certamente poco piacevole ma, a suo modo, importante e probabilmente necessaria.
Ecco, questo fatto sorprendente è legato a ciò che il fachiro chiama sacralizzazione del processo di distillazione della consapevolezza. In sostanza, l’intero processo sotteso alla creazione di consapevolezza (il quale ha il suo motore nelle singole esperienze di vita) sembra essere interpretato dall’individuo come sacro e intangibile, al punto da trasformare anche le esperienze dolorose in qualcosa di fatalmente inevitabile e, infine, necessario. In effetti e a ben guardare, c’è proprio questo curioso tratto alla base del c.d. martirio ma, senza giungere agli estremi dell’autoimmolazione, è possibile notare che la cosa funziona per ciascuno di noi in modo meccanico e, con tutta evidenza, ben oltre i limiti del controllo volontario. È sufficiente che il binomio sofferenza/paura funga da innesco e tutto quanto il resto si manifesterà “in caduta”, senza bisogno di ulteriori spinte.
A questo punto, l’astuto fachiro, dopo qualche attimo di riflessione attenta, si rende conto che la leva migliore all’interno del processo descritto è propriamente la paura perché può essere controllata molto più facilmente del dolore il quale, grazie all’inerzia del corpo fisico, richiede necessariamente l’intervento di un mezzo esterno (tipicamente, un farmaco). Capisce, quindi, che il trucco sta nel controllare la paura perché, una volta sotto controllo, facilmente impedirà alla sofferenza di crescere e, quindi, alla stessa autocommiserazione di esistere.
Tuttavia e per riuscire a controllare la paura, il fachiro ha bisogno di capirne meglio il funzionamento. Perciò, da individuo astuto e spietato qual è, si mette in ascolto della sua stessa paura e, dopo qualche tempo, riesce a vedere alcune cose che lo sorprendono. Riesce a vedere che la paura, poiché emozione, quando erompe nel suo centro emozionale (il suo secondo cervello) è troppo veloce perché sia catturata dal centro intellettuale (il suo terzo cervello). E, allora, comprende che ha un bisogno assoluto di rendere il suo centro intellettuale più fluido e veloce di quanto non sia in realtà. Ma cos’è che rende il suo centro intellettuale così lento? Il fachiro ci pensa un po’ su e alla fine riesce a vedere che il problema sono i condizionamenti, ossia quell’apparato di norme, regole e precetti, altrimenti conosciuto con il nome di Super-Io, che forma una sorta di gabbia dentro la quale la capacità di calcolo del suo centro intellettuale è atrocemente condizionata.
I fachiri, però, sono determinati. Una volta individuato l’obiettivo, certo non può bastare un centro intellettuale ingabbiato per farli desistere. E il nostro fachiro non fa eccezione poiché raggiunge il suo bel letto di chiodi e, lesto, si sdraia su di esso. Come lo fa, ovviamente, il meccanismo descritto scatta all’istante, ma lui è preparato. Sa cosa attendersi e appena la paura scaturisce, lui l’acchiappa e la congela e, a quel punto, entra in una dimensione che, ancora una volta, lo sorprende. In pochi e brevissimi istanti la sofferenza scompare per lasciare il posto a una sensazione strana, come di un flusso d’energia che si muove in una certa direzione. Non è certissimo della cosa, ma gli sembra che il flusso vada dall’interno verso l’esterno del corpo fisico mentre, accanto a questo, non può fare a meno di notare l’assoluta assenza di stimoli autocommiserativi.
Il tenace fachiro ha così ottenuto una prima conferma sperimentale della sua ipotesi: il controllo della paura, a patto che avvenga immediatamente dopo l’insorgere del dolore, annulla il dolore stesso. Ora non gli resta che verificare la validità della tecnica in relazione ad una sofferenza psichica e, per farlo, si mette in attesa giacché capisce che non avrebbe alcun senso cercare di auto-indurla.
Una storia vale l’altra e, in questa, il fachiro è tradito da una persona amica con la quale aveva condiviso alcuni fatti privati, tra i quali la sua compulsione verso la pratica onanistica. Ebbene, un giorno scopre che l’amico l’ha sputtanato su FB dicendo a tutto il mondo della sua debolezza e definendolo, nello stesso tempo, “un pipparolo, morto di seghe”.
Il colpo è tremendo, ma è esattamente quanto stava aspettando. Solo che adesso non ha a che fare con un dolore fisico, bensì con qualcosa di enormemente più scuro e pesante e che ha trasformato la paura in un’angoscia nera e liquida. E’ spiazzato. Vede bene che non esiste proporzione fra il problema posto dal dolore fisico e la cosa con la quale sta facendo i conti ora. E’ come cercare di sollevare una montagna con la sola forza delle braccia.
Allora, ha un colpo di genio: comincia a ridere. All’inizio è difficilissimo. Ha la sensazione di lottare contro qualcosa di gigantesco e impossibile da vincere. La sua risata risuona finta, stentorea e priva d’efficacia, ma sceglie di non mollare, nonostante tutto. Sceglie la lotta e questo genera una sorta di miracolo. Il suo corpo è improvvisamente scosso da una serie di scariche che sembrano provenire dalla base della colonna vertebrale. Più ride e più queste scariche lo scuotono sfociando in veri e propri conati di vomito. E’ una prova durissima ma che, alla fine, lo lascia sfinito e leggero.
L’angoscia è scomparsa e nota che adesso sta pensando se stesso in modo diverso da come aveva fatto sino a poco prima, quando aveva trattato la sua passione onanistica come un fatto privato e del quale vergognarsi. Nota come la sua risata ha azzerato in un colpo solo: paura, morte, autocommiserazione, indulgenza, senso di colpa e sacralità farlocca. Nota, altresì, come quel suo amico gli abbia, in realtà e mettendolo alla berlina in quel modo, reso un servizio senza prezzo offrendogli un’opportunità che lui (il suo amico) probabilmente non conoscerà mai: quella di divenire libero.
Fonte: etz-hayim.ucoz.net
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