La scrittura geroglifica, benche’ molto complessa, risulta molto interessante da studiare in quanto piu’ di ogni altro antico idioma permette di avvicinarsi al pensiero ed alla vita del popolo egiziano a partire dal 3000 AC fino a giungere quasi al 400 AC; un arco temporale molto ampio in cui, grazie anche allo studio di questa scrittura, si e’ potuto (e si continua tutt’ora) analizzare e studiare in maniera approfondita.
Lo scopo del presente articolo e’ di offrire uno spunto di riflessione e, perche’ no, di eventualmente incuriosire ed avvicinarsi a questo argomento di studio, che puo’ essere non solo la scrittura geroglifica in se’, bensi’ anche lo studio di altre “lingue morte”: infatti le basi di studio, di approccio e la conseguente metodologia si puo’ affermare siano ampiamente condivise, secondo convenzioni stabilite dai vari studiosi ed enti di ricerca nel corso degli ultimi due secoli.
“Parole dal suono perduto”
Il geroglifico e’ stato un metodo di scrittura molto particolare con alcune peculiari caratteristiche che, se da un lato ne hanno determinato un innegabile fascino, complessita’ ed un notevole valore artistico, dall’altro lato aveva la caratteristica di essere fortemente elitario, il suo studio era destinato alla stretta cerchia degli scribi e questo fatto ne ha causato l’oblio nel momento stesso in cui si sono estinti gli ultimi scribi a seguito della caduta del regno egiziano e l’invasione da parte di altre culture, che hanno portato l’Egitto a giungere all’assetto culturale che ha attualmente.
Il significato della parola “geroglifico” e’ etimologicamente il seguente: geroġlìfico (ant. ieroġlìfico) s. m. e agg. [dal lat. tardo hieroglyphĭcus, gr. ἱερογλυϕικός nella locuz. ἱερογλυϕικὰ γράμματα «lettere sacre incise»; comp. di ἱερός «sacro» e γλύϕω«incidere»] (pl. m. –ci) (Treccani). Dal significato letterale si evince una delle piu’ importanti caratteristiche della scrittura: essa infatti veniva considerata sacra in quanto di origine divina e, in particolare, era considerata “viva” proprio nel senso letterale del termine, essendo appunto di derivazione divina. Ad essa era attribuito il potere di rendere vivo ed immortale tutto cio’ che rappresentava sia a livello di significato, sia a livello di immagine grafica. Di conseguenza era questo il motivo per cui veniva ampiamente utilizzata nei monumenti funerari, sui sarcofagi, sulle suppellettili e su vari supporti che venivano posti con il defunto. Essi, riportanto il nome del defunto, ne garantiva l’immortalita’ tanto nell’aldila’ quanto nel modo dei vivi perpetuandone il nome. Anche il singolo segno geroglifico, rappresentando sempre un qualcosa attinente alla realta’, diventava vivo e reale nel momento stesso in cui veniva tracciato e/o inciso: basti pensare che ad esempio il cosiddetto “monolittero” cioe’ un simbolo grafico rappresentante un unico fonema, corrispondente alla nostra lettera “f” avente questa immagine: una “vipera cornuta” si trova frequentemente disegnato con la testa leggermente staccata dal corpo in modo da renderla inoffensiva per il defunto o per chi si fosse avvicinato all’incisione in quanto era a tutti gli effetti considerata viva. La potenza e la sacralita’ di questa scrittura la rendeva di competenza di una stretta cerchia di studiosi, i cosiddetti scribi, i quali assieme ai sacerdoti erano gli egiziani in vetta alla scala sociale, secondi solo al Faraone; e questa esclusiva nel maneggiare tale conoscenza ne ha causato l’inevitabile oblio. Le contaminazioni di persiani, macedoni, romani e arabi nel corso degli anni a partire dal 700 AC circa hanno completamente snaturato quella che era l’originale parlata egiziana la cui trascrizione si trovava nei caratteri geroglifici. Quando verso la fine del 1700 DC, in seguito al ritrovamento della Stele di Rosetta (fondamentale per gettare le basi per la comprensione e traduzione del geroglifico) e le prime spedizioni di tipo archeologico-scientifico nelle regioni egiziane, si iniziarono studi metodici degli antichi reperti e della scrittura, si pose il problema di dare una pronuncia alle parole che man mano si riuscivano a ricavarei dai vari reperti. Dai vari studi, confermati tutt’ora, essendo un lavoro immane e “work in progress” si evinse che gli antichi scribi utilizzavano una forma di scrittura che contemplava solo i suoni consonantici e non anche quelli vocalici, se non in minima parte, come siamo abituati con le lingue moderne. Emerse quindi la necessita’ di dare dei suoni vocalici standard in modo da facilitare il lavoro di studio e di comunicazione tra gli addetti ai lavori ed il conseguente aggiornamento dei documenti storici con terminologie che quantomeno potessero avvicinarsi alla realta’. Nacquero quindi suoni di comodo di cui il piu’ importante ed utilizzato e’ la “e” che viene usata come intersuono tra le consonanti, mentre ad esempio ad al suono vocalico “a” e’ stato associato direttamente un monolittero. Per fare un esempio traslitterando il nome di un famoso faraone dai simboli geroglifici a lettere convenzionali (a cui sono stati aggiunti altri simboli per riuscire a giungere a comunicaizoni piu’ funzionali mutuandone anche dalla lingua araba) si ha “r‘-ms-s” pronunciabile Ramses. Riguardo a questo nome, attribuito a diversi faraoni, si hanno varie versioni del nome, quali Ramesse o Ramsete: nessuna di queste puo’ definirsi giusta o sbagliata: diverse pronuncie che sono state attribuite convenzionalmente e di cui non conosceremo probabilmente mai il suono originario, il suono in questo caso del nome del Faraone che incuteva timore reverenziale al suo popolo e paura nei regni circostanti.
Fonti:
Museo Egizio di Torino
Associazione Amici e Collaboratori del Museo Egizio
Luca Peis, Alessandro Rolle, Peremheru – Il libro dei morti nell’Antico Egitto – Ed.LiberFaber 2013 – ISBN: 978-2-36580-093-8
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