L’estate scorsa, durante un viaggio dedicato al turismo e allo studio, ho potuto ammirare il più grande complesso di “arazzi” esistente al mondo, nel castello di Angers, in Francia, una delle città più interessanti e pittoresche della valle della Loira. Angers, che conta poco più di 150.000 abitanti, è il capoluogo del dipartimento “Maine e Loire”, antica colonia romana e fiorente ducato in epoca medioevale, culla della celebre famiglia degli Angioini. Questa casata diede origine alla dinastia dei Plantageneti, successivi sovrani d’Inghilterra, e avrebbe esteso il proprio dominio sul regno di Napoli tra la seconda metà del XIII secolo e la prima del XV.
Il monumento più importante, che costituisce quasi il simbolo della città, è l’imponente castello, chiamato anche il “castello dei duchi d’Angiò”, situato su un promontorio che domina il fiume Maine. Per la sua straordinaria posizione strategica, quel luogo fu abitato già in epoca preistorica, divenendo poi una roccaforte romana, di cui ancora oggi è possibile visitare alcuni resti. Si tratta di un luogo pieno di fascino e di mistero, le cui origini non sono ancora del tutto chiare. Nel 1997 fu ritrovato un tumulo costruito intorno al 4500 a.C., formato da quattro o cinque camere sepolcrali, alcune delle quali collegate all’esterno mediante corridoi. La fattura delle lastre fa intuire che l’ardesia, materiale predominante, in quel promontorio sul quale sorge il castello, era già abilmente lavorata in epoca neolitica. Una successiva campagna di scavi, poi, ha fatto ipotizzare la presenza di un insediamento gallico della tribù degli Andecavi, nei primi secoli a.C., che avrebbe costruito un villaggio. Di seguito, con l’occupazione romana, avvenuta alla fine del I sec. a.C., il sito fu trasformato in una vasta piattaforma fortificata, dove fu eretto un tempio con le stanze termali, dotate di un attrezzato impianto idrico che fu in grado di condurre acqua calda fino al X secolo. Le migrazioni dei popoli germanici fecero poi piombare l’intera zona nel caos, come successe nel resto dell’Europa. Tuttavia, alcuni scavi hanno evidenziato che, tra il VII e il IX sec., intorno al castello, vi era una cittadella abbastanza organizzata, con edifici di discreta fattura e giardini appartenenti ad un presunto palazzo episcopale. Tale supposizione è avvalorata dal fatto che il vescovo di Angers risulta proprietario del sito, dove sarebbe sorto il castello, a partire proprio dal IX secolo. Il conte d’Angiò si trasferì nell’851 vicino al terreno di proprietà del vescovo, in un periodo in cui Normanni e Bretoni saccheggiarono più volte la città.
Contemporaneamente i conti d’Angiò fecero edificare il “palazzo conteale”, mentre conquistavano territori della Normandia e dell’Aquitania. Nel XII secolo il palazzo passò sotto il controllo dei Plantageneti, ma nel 1131 fu devastato da un incendio. Durante la ricostruzione, il palazzo fu ampliato, occupando quasi tutta l’area del promontorio. Dopo alcuni anni di invasione da parte dei Bretoni, Angers fu liberata dalla reggente Bianca di Castiglia e da Luigi IX, che subito dopo decise di cambiare il volto della struttura, concependo l’idea di edificare una “fortezza reale”. Per tale opera fu pagata una somma molto ingente, istituendo perfino una tassa per i cittadini di Angers. La costruzione fu completata nell’arco di una decina d’anni (1230-1240), conferendo all’edificio, più o meno, il suo attuale aspetto: una cinta di mura colossale di 800 metri, intervallata da 17 torri, fatta eccezione per il lato nord, molto ripido e di fronte al fiume Maine, lasciato senza torri. Il ducato d’Angiò fu concesso “in appannaggio” a Carlo I di Sicilia, fratello di Luigi IX, che avrebbe dato origine al regno di Napoli, ispirandosi proprio al castello di Angers per la costruzione del Maschio Angioino nella città partenopea. Successivamente, poichè l’Angiò era divenuto un ducato, il castello fu abbellito da vari nobili della dinastia, che mirarono pure a dotarlo di fortificazioni più solide per contrastare gli attacchi degli inglesi. Ritornato poi sotto l’autorità reale, il castello di Angers, diventò simbolo dell’intera Europa, vivendo un momento di estrema drammaticità, durante le guerre di religione fra cattolici e protestanti, che si contesero il possesso del castello. Enrico III, allora, diede ordine di raderlo al suolo, affinchè nessuna delle due fazioni potesse utilizzarlo contro di lui. Ma, dopo un iniziale abbassamento delle torri, la demolizione fu rallentata e definitivamente abbandonata dopo la guerra, anche se i macchinari per la demolizione rimasero “in loco” fino alla metà del XVIII secolo. Durante la Rivoluzione del 1789, il castello divenne la sede del “Comitato rivoluzionario di Angers” e fu adoperato come prigione durante il periodo del “Terrore” e della guerra di Vandea. Nei secoli successivi, è stato teatro di occupazione delle diverse forze di quel preciso momento storico, come napoleonici e prussiani nei primi decenni del XIX secolo, o tedeschi e angloamericani alla fine della seconda guerra mondiale. Il castello è poi diventato un museo e, come detto in apertura, ospita una grande galleria dove si può ammirare il mitico arazzo dell’Apocalisse.
Il cosiddetto “arazzo” è in realtà un “ciclo di arazzi”, realizzato alla fine del XIV secolo, che si ispira al libro dell’Apocalisse di Giovanni di Patmos. Si tratta del più antico arazzo francese, uno dei più grandi capolavori del patrimonio dell’arte d’oltralpe, nonchè una delle più significative e verosimili rappresentazioni del libro dell’Apocalisse. Le ricostruzioni storiche hanno dimostrato che l’arazzo fu commissionato, tra il 1373 ed il 1377 al mercante Nicolas Bataille, a favore del duca Luigi I d’Angiò. Bataille lo fece tessere, nel suo laboratorio di Parigi all’aperto, in arazzi da Robert Poisson, ma l’opera fu probabilmente completata nel 1382. La preparazione del ciclo di cartoni fu affidata al pittore Hermaquin de Bruges, chiamato anche Jean de Bruges, pittore di corte del re Carlo V di Francia. Si pensa che Luigi d’Angiò avesse l’intenzione di esporre l’arazzo all’aperto, tenuto sollevato da strutture di legno, come a delimitare un campo per i tornei cavallereschi, in quell’epoca molto in voga. L’arazzo, con ogni probabilità, aveva anche una funzione politica, per rafforzare il prestigio della dinastia dei Valois, che fu poi coinvolta nella sanguinosa guerra dei Cent’anni. L’arazzo fu poi esposto nella cattedrale di Saint Maurice ad Angers, dove ancora oggi si possono scorgere due suggestivi rosoni policromatici, che raffigurano il Cristo re dell’Apocalisse. Nel clima di terrore anticlericale e antitradizionalista della Rivoluzione del 1789, l’arazzo fu letteralmente fatto a pezzi per ricavare coperte, stuoini e riparazioni domestiche. Con molta difficoltà fu recuperato nel 1848 e restaurato grazie alla passione del canonico Joubert, che riuscì a restituire la preziosa opera alla cattedrale. Ma questo luogo si rivelò poco adatto e, perciò, il ciclo di arazzi fu collocato nel secolare castello, e precisamente in una sala adatta a conservare il capolavoro e ad accogliere i numerosi visitatori. La sala fu progettata nel 1952 da Bernard Vitry e dopo il 1990 sono stati apportati notevoli miglioramenti, come l’installazione di nuovi dispositivi di sicurezza, luci e ventilazione adatta a preservare al meglio la grande opera artistica.
Analizzando la struttura del ciclo di arazzi, bisogna premettere che inizialmente esso era composto da sette pezzi, forse in assonanza con i “settenari” ricorrenti nel libro dell’Apocalisse ( Chiese d’Asia- sigilli- trombe-coppe). A noi ne sono giunti soltanto sei. L’opera complessiva, pertanto, misura 103 m di lunghezza per 6,1 m in altezza: inizialmente si suddivideva in 90 scene, mentre ora ne rimangono 71. Alcuni studi accurati hanno dimostrato che i materiali utilizzati, sia per ottenere la trama, che per formare l’ordito, sono la lana, la seta e tinte con colori vegetali. I colori sono vividi e brillanti, spiccando, in modo particolare, il giallo ottenuto con la reseda, gli sfondi rossi ricavati con la robbia e quelli blu ottenuti con vari metodi. Per rendere ancora più suggestive le rappresentazioni, sono stati inseriti, in maniera sistematica, alcuni fili d’oro e d’argento. E’ necessario, comunque, sottolineare, che mentre i colori sono abbastanza sbiaditi nella parte visibile al pubblico, nel retro dei vari pezzi si possono notare ancora le vivaci tonalità iniziali.
Dal punto di vista storico e teologico, si può dire che la storia visionaria, narrata nell’Apocalisse di Giovanni, era molto trattata nel XIV secolo, concentrandosi principalmente sulla lotta tra il bene ed il male. Secondo gli autori più accreditati, come modello per l’arazzo, Luigi d’Angiò scelse alcune raffigurazioni presenti in un misterioso manoscritto eseguito in Inghilterra intorno al 1250, che gli avrebbe prestato suo fratello Carlo V. Secondo altri, Luigi fu anche influenzato da un grande arazzo donato, a Carlo V, dalla città di Lilla nel 1367. Avendo potuto ammirare da vicino la straordinaria opera, ho riscontrato che, all’inizio di ogni scena, si scorge un personaggio seduto su un baldacchino, con la funzione di introdurre alla lettura allegorica delle visioni. Questo personaggio raffigura lo stesso Giovanni con intenti didascalici. Le scene sono piene di immagini simboliche ed allegoriche che rimandano al complesso ed enigmatico testo di Giovanni. Ma ciò che colpisce maggiormente l’osservatore, che ha una certa dimestichezza con il libro dell’Apocalisse, è il fatto che il ciclo di arazzi ripercorre, pressochè fedelmente, la narrazione dell’autore, con costumi e iconografie tipiche della fine del Medioevo. Fin dall’inizio della visita, sembra di vivere le oniriche esperienze di Giovanni, partendo dall’ispirazione divina a dimostrare le qualità del creato, fino alla rivelazione dei misteri ai famosi quattro cavalieri, che sono inseguiti dalle anime dei morti. E desta una certa impressione la raffigurazione dell’ultimo dei cavalieri, la Morte, che fino ad allora era stata rappresentata come una “creatura vivente”, qui, invece, si impone, nella sua realtà ontologica di “cadavere in decomposizione”
Il viaggio prosegue attraversando le peripezie dei sette sigilli, delle trombe divine che annunciano l’arrivo del Messia, delle coppe che riversano flagelli sulla corruzione del genere umano, per giungere al punto cruciale, cioè alle insidie di Satana, attraverso l’Anticristo e lo pseudoprofeta, raffigurati come la Bestia che viene dal mare e la Bestia che viene dalla Terra. La narrazione della caduta di Babilonia, nata forse come anatema contro l’impero romano, si trasfigura in un simbolo della caduta dell’uomo nel peccato, con un giudizio escatologico, in cui l’Agnello separerà le sorti dei giusti da quelle dei dannati. E il ciclo si chiude con la speranza della sconfitta delle forze del male e con l’immagine della Gerusalemme celeste, simbolo dell’eternità per coloro che rimarranno in comunione con Dio, sapendo scegliere a quale schieramento appartenere.
In conclusione, vorrei evidenziare un particolare che non è sfuggito a tanti interpreti: dei 7 pezzi originari dell’arazzo, a noi ne sono pervenuti soltanto 6. Come è noto, il 7 era il simbolo della perfezione divina, mentre il 6 era il numero che richiamava l’imperfetto, l’incompiuto, fino ad arrivare al 666 indicato da Giovanni di Patmos, come marchio della bestia…..Che sia un presagio del fatto che l’umanità viva in un’epoca ancora contraddistinta dall’incompiutezza….?
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