Brocéliande. Foresta. Soglie.
L’ultimo luogo – dimora, per quel che ne sappiamo, definitiva – del Mago Merlino è appunto la Foresta di Brocéliande, nella quale aveva creata per l’amata fanciulla Viviana uno splendido castello incantato sulle rive di un grande lago, visibile solo per loro. Motivo per cui Viviana fu poi conosciuta come Dama del lago. Merlino trasmise tutta la propria conoscenza a Viviana, tranne 1 incantesimo: come tenere prigioniero un uomo in eterno. Ella però gli promise di concedersi a lui, e Merlino cedette. Così, ella esercitò su di lui l’incantesimo, e lo “irretì” in un magico sonno destinato a durare in eterno. Si dice che il mago parli ancora a qualche eletto nel sonno…

Ecco apparire uno dei luoghi principali di incontro con gli Elfi: la foresta. Luogo di difficile accesso, nel quale si entra, senza forse riuscire ad uscire, cercando qualcosa di magico e portentoso, la foresta è il ‘luogo dell’errare’, inteso sia come vagare, sia come errore. Poiché «la selva è lo spazio dell’ “errore”», «l’errare che vi fanno i cavalieri ha molteplici significati»: il primo è quello del “movimento fisico”, il secondo è “il giudizio intellettuale erroneo”, il terzo è “l’irretimento amoroso”. Se la quest , la ricerca, si rivela così difficile da impegnare tutte le energie del cercatore, questi non sempre riesce a conservare se stesso integro, fisicamente e moralmente, attraverso le prove a cui deve sottoporsi. Ed è di questo tipo di ‘prove’ che fanno parte certi incontri con gli Elfi, che tentano, irretiscono, minacciano, ingannano e pèrdono, oppure edùcono, cioè “traggono fuori”, e salvano chi ‘erra’.[1] L’apparizione degli Elfi nelle ore notturne ed in luoghi come boschi, prati, radure presso fonti o rocce poco accessibili è un topos, da ricollegare forse al concetto di ‘selva’ come si venne sviluppando nella letteratura medievale e rinascimentale. Di questa infatti fa parte il Ciclo Arturiano come lo conosciamo. Quindi, forse, Viviana era una fanciulla Elfo…

Una creatura magica, sicuramente. Che viveva in un luogo accessibile solo a certe condizioni, visibile addirittura solo ad alcuni. Come un luogo che sta al di là di un ostacolo, di là da una porta, che va attraversata per passare “al di là” e oltre. Coloro che possono muoversi a proprio piacimento per questi passaggi, queste porte, appunto, sono detti “creature della soglia”. C’è una soglia che divide le cose dal loro opposto complementare: luce e tenebra, visibile e invisibile, giorno e notte, sole e luna, maschile e femminile… Gli Elfi, con altre creature magiche, sono da sempre “sulla soglia”.
Diversi dagli esseri umani, gli Elfi sono sempre stati, nella letteratura e soprattutto nella tradizione popolare, un “specchio” in cui guardare ciò che non si vuole ci appartenga. Il diverso, l’altro da noi, l’essere che ci fa identificare come umani. L’aspetto fisico, la durata di vita, il luogo e l’attività: tutto li distingue.
Origine della parola “èlfo”.
A cominciare dal nome. Il significato della parola Elfo viene da una radice “bianco, luminoso”, che ha generato parole in molte lingue europee e persino in sanscrito e in Hindu. La parola Elfo, venuta all’italiano dal Tedesco, passa a identificare in Olandese “figura di nebbia”, che rimanda immediatamente al Cantare dei Nibelunghi, detti appunto “uomini della Nebbia”, oppure “incubo” in Tedesco moderno. Ha a che fare con il Russo, con la parola che significa “cigno”, animale elegante, bianco e muto, appartenente alla sfera lunare e acquatica. In Sanscrito, nei Veda, esistono 3 genii artigiani molto saggi chiamati rbhu, parola anch’essa derivata dalla stessa radice di Elfo. In Norvegese, Svedese e Danese, invece, si ha il termine Alfr, elfo, al plurale Alfar. Gli Alfar, nel mondo Nordico, sono addirittura delle divinità. Combattono spesso accanto agli dèi Asir – gli dei che governano il mondo nordico – contro i Giganti della Brina – i nemici dell’ordine e del bene. Eppure, gli Alfar sono legati strettamente agli dèi Vanir, dèi della fertilità e della natura. Infatti, si credeva che gli Alfar fossero responsabili della salute e della longevità dei membri della tribù. Anche la salute del bestiame e la fertilità dei campi, indirettamente responsabile della vita umana, erano in potere degli Alfar. Alla base era la convinzione che gli Alfar fossero gli spiriti degli uomini e delle donne morti della tribù, detta Sippe. Per questo, in autunno, di notte le donne offrivano in sacrificio latte, burro, sangue e piccoli oggetti metallici, come aghi e spilli, deponendoli in ciotole scavate nella pietra. Questo culto affonda le proprie radici nell’età della pietra, e perdura tuttora, tanto che in Norvegia si crede che gli Elfi siano gli antenati mitici della famiglia reale.
Gli Alfar avevano un loro posto nell’universo nordico, uno dei 9 mondi descritti nell’Edda, il libro più significativo della mitologia norrena. In realtà, i mondi erano 2, per i 2 diversi tipi di Elfi esistenti: Elfi Chiari, o della luce, ed Elfi Scuri, o delle Tenebre. I primi erano belli, aggraziati, luminosi, abili tessitori e cantori, e vivevano nella bellissima dimora Gimlé, nel regno di Alfheimr “terra degli Elfi”, posto ai confini fra Asgarðr “recinto degli Asi” e Miðgarðr “recinto di mezzo”. I secondi vivevano in Svartalfheimr “terra degli Elfi delle tenebre”, fra Utgarðr e Helheimr[2], erano brutti e deformi, scuri e malevoli, abilissimi fabbri, con molte caratteristiche in comune con i Nani, con i quali erano spesso confusi. Anche la loro dimora era scura e nascosta.
Sidhe.
Nascosta, accessibile solo a certe condizioni, con certe pozioni o a coloro che sono dotati di “seconda vista” è anche la dimora degli Aes Sidhe, “popolo delle colline”, eredi delle divinità chiamate Tuatha Dè Danaan, “genti della dea Danu, o Dea Bianca”, che vinsero i giganti Fomòri, impossessandosi e proteggendo l’Irlanda, fin quando il popolo di Mìl non li vinse a sua volta, costringendoli a fuggire e nascondersi dentro le colline cave e nei tumuli[3], detti sid, che anticamente erano stati consacrati al loro culto. Tutto questo è narrato in vari manoscritti, di cui il più importante è il Lebhar Gabhála Erenn “Libro delle Invasioni”. Perduta la loro divinità, i Tuatha si trasformano in Sidhe, spiriti protettori di boschi, monti, corsi d’acqua, ed infine tornano nel paradiso dal quale erano venuti migliaia di anni prima. Ulteriormente decaduti a causa dell’arrivo sull’isola della religione predicata da S. Patrizio, i Sidhe, vivono ancora nelle meravigliose dimore descritte nelle storie tramandate dalla tradizione, belle ed immutabili: Tír nan Og, la terra dell’eterna giovinezza, Odain Saker, l’isola di Avalon, l’isola di Hy Braseal ed altre isole all’estremo Ovest, dette le Isole dei Beati.[4]
Quando vivono nella loro terra, nascosti in tumuli, pareti rocciose, nel mare ed in genere ovunque l’occhio dell’uomo non possa penetrare, possono dissimulare l’entrata al loro mondo, che solo la ‘seconda vista’ può indicare: i guadi dei fiumi, i crinali dei monti, i confini delle terre della tribù sono tutti punti, ‘limina’, confini, carichi di potere magico ed attraverso di essi gli esseri dell’Oltremondo possono penetrare nel mondo umano e viceversa.[5] Oltre alle soglie spaziali, esistono anche soglie temporali: la notte della vigilia di Ognissanti, detta Hallowe’en in anglosassone e Samhain dagli antichi celti, è una delle più potenti, la celebrazione dell’unità delle due dimensioni: il «giorno del passaggio dall’estate all’inverno è il tempo in cui i due mondi della mitologia celtica, quello del soprannaturale e quello umano, vengono in contatto, e i Sidhe si mostrano, e spesso si uniscono, agli uomini.»[6] Le due dimensioni, infatti, sono concepite come coesistenti; attraente e minaccioso, il mondo dei Sidhe è vicino ma intangibile, come un riflesso in uno specchio d’acqua limpida e profonda.[7] Vivendo nascosti, essi non interferiscono con le vicende umane, ed i mortali non li invocano, anzi, li temono.
Aspetto e tradizioni.
Infatti, molti e vari sono gli esempi di ‘scongiuri’ contro le potenze infernali in genere e dei Sidhe in particolare, preghiere rivolte a S. Patrizio, a S. Brigitta e ad altri santi per essere protetti da quello che, con intento scaramantico, fu definito ‘Piccolo popolo’. Tra di esse le più famose e belle sono le ‘lorìche’, “corazze”, da intendersi, appunto, come difesa contro gli spiriti maligni. A conferma del timore che l’azione degli èlfi, nella loro veste di incubi suscitava, un’Orazione Vespertina, di anonimo, che data tra il VI ed il IX secolo, recita nella prima strofa: «Ch’io dorma nella pace di Cristo / E che nulla di male io veda / Di quelle cattive visioni / Che arrecano danno di notte.»[8]
Molte e tuttora vive – soprattutto nelle zone rurali, per natura più conservative – sono le usanze ed i riti apotropàici vòlti ad impedire che un èlfo od un folletto faccia inacidire il latte, intrecci la criniera del cavallo, causi coliche alla mucca o nasconda qualche oggetto nella casa. Pericoli ancora maggiori li corrono i bambini: per proteggere i neonati dal contatto con le fate e gli èlfi[9], o dal venirne rapiti, si usa appendere un rametto di sorbo rosso (Sorbus aucuparia) sulla culla delle bambine ed un rametto di ontano (Alnus) su quella dei bambini, poiché si narra che il primo uomo fu creato da un ramo di ontano e la prima donna da un ramo di sorbo. Per lo stesso motivo, una pianta di sorbo rosso viene in genere piantata vicino ad ogni casa nelle Highlands, ed una croce, un ramo o un mazzetto di bacche rosse di sorbo sono ugualmente protettive contro le fate e gli elfi. Il frassino (Fraxinus) è un sostituto del sorbo, specialmente adatto per proteggere il bestiame. Nella notte di Hallowe’en, l’antica festa celtica Samhain – momento nel quale le barriere fra i due mondi, magico e umano, si abbattono – cespugli di agrifoglio (Ilex aquifolium) sparsi per la casa o appesi alle porte prevengono l’intrusione degli spiriti. Il trifoglio (Trifolium) a quattro foglie è in grado di rompere gli incantesimi di fate ed èlfi, come anche l’erba di S. Giovanni (Hypericum), efficace persino contro il potere del maligno. La verbena rossa (Verbena officinalis) e le margherite – soprattutto quelle di campo – sono un antìdoto altrettanto potente, tanto che una catena di margherite può salvare un bambino dall’essere rapito dalle fate o dagli èlfi.
Oltre che nel mondo naturale, potenti rimedi possono essere trovati nei prodotti del lavoro dell’uomo. Anche il ferro offre protezione contro fate ed èlfi: in forma di croce o di coltello da tenere con sé. Alla casa e soprattutto alla stalla possono venire appesi ferri di cavallo, ed i cavalli stessi vengono protetti dall’essere rapiti dalle fate appendendo pietre forate naturalmente alla mangiatoia della stalla. Una volta battezzato, un bambino è più o meno al sicuro, ma prima, quando è ancora un ‘pagano’, può venire protetto da un paio di forbici appese sulla culla, fatte di ferro ed in più sospese in forma di croce, per impedire alle fate ed agli èlfi di rapirlo, lasciando un changeling al suo posto. Non solo nelle zone prettamente celtiche, ma anche in Inghilterra la superstizione circa gli “Elves” era ancora viva fino al XIX secolo.
Elfi di Tolkien.
E proprio sulla tradizione si innesta la creazione di Tolkien. Egli conosceva benissimo non solo la mitologia, quella classica, quella germanica e norrena, celtica e persino finlandese, ma anche le lingue. Nella “terra di mezzo”, che riecheggia un termine dell’Edda e la struttura dei nove mondi nordici, si parlano molte lingue perfettamente “funzionanti” create dal Tolkien su modelli reali: il Quenya, la lingua antica degli Elfi, suona come il finlandese, mentre il Sindarin, la lingua nuova, assomiglia al gallese, lingua celtica. Gli uomini parlano la Lingua Comune, il Westron, che suona come l’inglese moderno, ma gli Uomini di Rohan hanno nomi che vengono direttamente dall’anglosassone, antico più di mille anni, ormai. I suoni e le parole pronunciate nelle varie lingue sono importanti per dare “carattere” a chi le parla: il linguaggio Hobbit è semplice, quello degli Ent è musicale e lentissimo, la brutta lingua degli Orchi è dura e stridente, il linguaggio dei Nani è segreto…La parola dà forma, nel mondo di Tolkien, dà ordine: serve per metter le cose al loro posto, e “contenere” con la comunicazione ciò che altrimenti sarebbe caos. Non a caso, appena risvegliatisi dal sonno sulle rive del lago Cuiviènen, “acque del risveglio”, gli Elfi “parlano”. Una delle prime parole che pronunciano è l’esclamazione “Elenn!”, guarda!, indicando le stelle del cielo notturno. E da allora in poi le stelle saranno dette Elenn, in elfico, e talmente amate dagli Elfi che essi stessi saranno detti Eldar, popolo delle stelle. Gli Eldar, però, chiamano se stessi Quendi, “quelli che parlano con voci”. Per questo, quindi, si identificano. E non solo le stelle saranno care agli Elfi, ma anche la potente “accenditrice di stelle”, la bella e potente Elebereth, una delle Potenze di Arda, la “terra che esiste”. Le Potenze sono state da qualcuno assimilate agli angeli della Bibbia. Una convenzione come un’altra. L’universo di Tolkien è di fatto monoteista: l’unico dio creatore e onnipotente è Eru, l’”uno”, detto Ilùvatar”, padre di tutti. È Iluvatar che crea per primi gli Elfi, i Primogeniti, e poi gli Uomini, i Secondogeniti. Nella sua volontà, le 2 razze dovevano essere vicine, sorelle, aiutandosi e sostenendosi a vicenda secondo le proprie capacità. Gli uomini sono meno belli e forti degli Elfi, vivono meno a lungo, la loro capacità creativa è più limitata. Il cuore umano è più facile a corrompersi per sete di potere e debolezza. Il legame degli Uomini con la natura, colla creazione di Eru, è meno intimo e significativo.

Gli Elfi, fin dal principio, sono perfettamente inseriti nella Natura, ne sono non solo custodi, ma amanti e contemplatori. Sono destinati a vivere “finché vive il mondo”. Come ricorda Barbalbero, sono stati gli Elfi a risvegliare gli Ent, per desiderio di parlare con gli alberi. La natura è vita, e la vita è comunicazione, per gli Elfi. Quando un albero muore, è un dolore straziante, quando la natura viene violentata e deturpata, è come una ferita aperta nel cuore degli Elfi. Al contrario, la loro presenza “fa bene” alla terra, alla vegetazione: le sepolture degli Elfi consacrano la terra, la preservano dal male per secoli, con la sola presenza. I luoghi abitati dagli Elfi non sono solo più belli, più curati e più riposanti o “sacri”: sono “vivi”. La natura prende vita, si risveglia, canta, si ribella, piange, partecipa della vita degli Elfi, e gli Elfi partecipano della vita della natura.
Sono perfettamente e veramente in comunione.
Per questo, con l’avanzare del potere degli Uomini, che non sono in armonia con la natura, non c’è più posto per gli Elfi. Non possono vivere in un mondo “sconsacrato” e “snaturato”. Senza armonia, senza bellezza, senza luce, senza Elfi: il mondo della quarta era appartiene agli uomini ormai completamente, ma a quale prezzo?
Gli ultimi Elfi partono dalla Terra di Mezzo verso Occidente. Verso quelle Isole dei Beati che nel Ciclo Arturiano furono identificate con Avalon, dove Artù è stato portato per essere “guarito” – chissà se solo curato dalle ferite dell’ultima battaglia o addirittura reso immortale. Come i portatori dell’Anello, che devono essere curati dal male col quale sono entrati in contatto e che li mina da dentro, gli Elfi amanti delle stelle si riposano nelle Aule di Mandos, il Custode del Sonno. Essi infatti non muoiono nel senso umano del termine: la loro vita non ha fine, ma possono essere uccisi, o lasciarsi morire di dolore, ed ecco che passano il mare verso occidente, e ritrovano tutti coloro che li hanno preceduti e in seguito quelli che verranno dopo. Nessuno si perde.
Gli uomini, invece, a causa del “dono di Iluvatar”, la morte, cioè, hanno vita breve, e dopo la morte nessuno sa dove vada il loro spirito. Per gli Elfi, più della propria morte, che è davvero solo un “passaggio”, è fonte di dolore veder finire, tramontare, diminuire e spegnersi le cose, le persone, i luoghi. La caducità delle cose, della vita umana, li affligge, perché non hanno alcun rimedio contro questo destino voluto dall’alto. Tutto scorre, il tempo passa e deteriora anche le cose più belle. Per questo una delle arti più coltivate dagli Elfi è la cura, la guarigione e la conservazione – della natura, delle creature viventi, della conoscenza… I 3 anelli elfici sono creati esattamente per questo: preservare e custodire. Ecco perché luoghi come Gran Burrone e LothLorien sono così belli, curativi e addirittura “sospesi” nel tempo. Caratteristica degli Elfi da sempre è anche questa: la confusione del tempo, 1 anno come e 1 ora, 1 ora come 1 anno. Per loro non c’è molta differenza, e neppure per chi entra in contatto con loro, varcando la soglia del loro mondo.
La visione del mondo degli Elfi è a un tempo più chiara e più complessa di quella degli Uomini. Coraggiosamente schierati quasi “per natura” dalla parte del bene, sono costituzionalmente incapaci di macchiarsi di male. Eppure, conoscendo molto e vivendo a lungo, sanno quanto tutto è complessamente legato e intrecciato, la loro saggezza suona spesso ambigua all’orecchio umano. Anche perché, sempre per la loro natura, gli Elfi non sono scissi come gli esseri umani: non hanno anima disgiunta dal corpo, sono tutt’uno in loro stessi – ecco perché dormono sognando, senza perdere conoscenza, e perché percepiscono il male quasi a livello fisico, e non s’ingannano facilmente. Per questo Morgoth, l’angelo ribelle che al principio corrompe tutta l’opera delle Potenze, non riuscendo a trarre dalla sua parte gli Elfi, li cattura, li tortura e con dolore e magia ne cambia del tutto la natura. Neppure il nome si applica più.
Ha creato gli Orchi. Le 2 razze, naturalmente, sono divise da orrore gli uni degli altri, e sono in opposizione perfettamente antitetica: l’aspetto, la morale, le armi, i cibi… Gli Elfi sono dalla parte della luce, della bellezza, del bene come gli Orchi lo sono dell’oscurità, della bruttezza e del male. Il male, l’ombra, sono tutt’uno: sono assenza di luce, sono non-luce, il suo contrario. Ma il non essere non è. Il male, in Tolkien, è più di tutto illusione. L’illusione è credere a qualcosa che non c’è. Quindi non è “vero”. È un inganno.
Al contrario, è bene e giusto credere in ciò che è, che esiste. E ciò che esiste è: Arda, “il mondo che è”, la natura, la creazione. Questo è “vero”, questo è anche naturale, e armonioso. Il male è “perturbazione cosciente dell’armonia”. Separazione e confusione. La parola “diavolo” significa “ostacolo”, ciò che è gettato in mezzo per far inciampare. Per fare cadere e causare dolore. “Scandalo”, in ebraico, significa caduta. Il male è scandalo, infatti. Caduta da uno stato di originaria armonia, di bellezza data dall’unione con la creazione, con la natura. Ciò che unisce, al contrario, è a favore dell’armonia, e riconduce alla verità. “Simbolo”, in greco, significa “che unisce”, laddove diavolo significa “che divide”. Il simbolo è contro il diavolo.
E in Tolkien gli Elfi sono simbolo di bellezza, di armonia, di forza, di libertà. Di tutto ciò che è bene e che fa bene. Sono la protezione, la guida, la conoscenza. E l’ispirazione. Sono necessari, come lo è la vita dello spirito e la fantasia. La creazione che all’uomo è consentita è la sotto-creazione, a immagine della creazione di Dio. L’uomo non può dare vita nel senso tridimensionale del termine, ma può dare esistenza a un mondo che dà senso alla vita. Il mondo dell’anima non ha minore dignità di quello materiale. L’anima – così si crede – sarà l’unica parte che vivrà in eterno. L’unica parte che sconfiggerà la morte. Una parte sulla quale varrebbe la pena scommettere…
Ecco, l’anima dell’uomo, in un certo senso, sono gli Elfi. Sono la parte migliore, la parte eterna, lo specchio e il sogno.
In Tolkien, nel territorio dello spirito, non c’è più conflitto tra queste figure anticamente pagane, gli Elfi, e gli esseri umani di tradizione cristiana. In Tolkien cielo e terra si incontrano, si fondono, si sposano.
Dio è signore degli angeli, degli uomini e anche degli Elfi.
Note
[1] Cfr. R. Ceserani e L. De Federicis, Il Materiale e l’Immaginario, 5 voll., Torino, Loescher Editore, 1986 vol. 2, pp. 723-724.
[2] Vedi Tavola A I Nove Mondi in coda alle Appendici. Cfr. P. Scardigli, cit., p. 343.
[3] Cfr. G.Agrati, M.L.Magini, Saghe e racconti dell’antica Irlanda, Milano, Mondadori, 1993, vol. 2, p. 735. Cfr. Cap. 1.3.
[4] Cfr. E. Lodigiani, Invito alla lettura di Tolkien, Milano, Mursia, 1982, pp. 159-160.
[5] Cfr. Brian Bates, La Sapienza di Avalon, Rizzoli, 1998, p. 172.
[6] G.Agrati, M.L.Magini, cit., vol. 1, p. 109.
[7] Cfr. Brian Bates, cit., p. 173.
[8] S. Colomba, S. Colombano, S. Brandano, S. Gildas, Anonimi, Dio è corazza dei forti, Testi del cristianesimo celtico (VI-X sec.), Rimini, Il Cerchio, 1998 p. 78.
[9] Nell’ansia di esorcizzarli ed ‘euemerizzarli’ sono detti eufemisticamente: People of Peace, Good Neighbours in Irlanda; The Old People, The Small People of Cornwall in Cornovaglia; Still Folk nelle Highands; Wee Folk in Scozia e Irlanda.
Morwen Galenril
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