L’IMPORTANZA DEL CIBO
Prima di addentrarci pienamente nella prospettiva sistemico-familiare, per analizzare le dinamiche conversazionali e la veicolazione di polarità di significato all’interno del mini mondo-familiare, mi vorrei soffermare brevemente sull’importanza del “cibo”.
Il cibo per l’essere umano non è solo nutrimento. Con ciò intendo dire che il cibo assume, come tutto ciò che entra a contatto con l’esperienza dell’essere umano, un particolare significato, che dà senso e direzione a noi, al nostro modo di concepire gli altri e alla realtà che ci sta intorno. Potremmo dire che quello della fame è un “bisogno primario”, proprio come la sete, il sesso e il sonno, governato dall’ipotalamo (ipotalamo laterale connesso allo stimolo della fame, ipotalamo ventromediale responsabile invece della sazietà), dagli enzimi presenti nel nostro apparato digerente, che mandano messaggi di “sazietà” al nostro cervello, oltre che da alcuni ormoni che regolano e influenzano il processo come: cortisolo, insulina, leptina. Ma questa è solo una parte della realtà! Tutto ciò che riguarda l’umano non è mai deterministicamente causato dalla genetica, e non è solo meccanico istinto, ma è anche e soprattutto COMPORTAMENTO e, prima ancora, risonanza personalissima e interna delle esperienze di vita vissuta e del contesto socio-culturale di appartenenza.
Quando parliamo di disturbi alimentari, a mio parere, la prima domanda che dovremmo farci è: che significato assume e veicola il cibo per quella particolare persona? Qual è il contesto in cui è emerso e si è verificato il disturbo?
In questo scritto non parlerò della classificazione diagnostica dei disturbi alimentari presente nel DSM (Manuale Statistico dei Disturbi Mentali, ad oggi alla V edizione, in cui questi disturbi sono chiamati “Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione”), poiché questa è più utile al clinico come orientamento e supporto, che non alla persona che richiede aiuto o viene in cura per una difficile situazione, un particolare stato di sofferenza, in un dato periodo della sua vita (più o meno dilatato nel tempo). Possiamo dire, grosso modo, che tra i disturbi alimentari ritroviamo: anoressia, bulimia, binge eating (alimentazione incontrollata, disordinata); l’obesità, invece, non sarebbe considerata “per forza” un disturbo mentale (anche se è sempre più pericolosamente in aumento nei Paesi in via di sviluppo, e assume uno specifico significato all’interno di una particolare semantica familiare, come vedremo in seguito).
Perché una persona mangia? La prima risposta, la più ovvia, che verrebbe in mente è: perché ha fame!
Perché una persona non mangia? La risposta a questa domanda sarebbe opposta naturalmente a quella precedente: perché non ha fame!
Invece non è sempre così, o meglio, a volte si arriva a una ripetizione automatizzata e stereotipata di assunzione di cibo o iper-controllo e/o mancanza della sua assunzione, tanto che esso diventa il CENTRO dell’esistenza di una persona, influenzando ogni ambito della sua vita a tutti i livelli: personale, interpersonale e sociale. Il cibo, in questi casi, così come nei gravissimi casi di obesità, bulimia o anoressia a “rischio”, perderebbe la connotazione nutritiva e verrebbe assunto, eliminato o evitato, per compensare qualcosa, per riempire un vuoto affettivo, per difendersi, per aumentare il senso di controllo e potere, per richiamare l’attenzione, per consolazione, per punizione, senso di colpa, ecc…
Il cibo ha quindi una connotazione affettiva molto forte, e può persino diventare simile a una “droga”, nel momento in cui crea “dipendenza”.
Bisogna partire dal presupposto che esistono sempre una causa e un significato sottesi a ogni comportamento, per quanto possa essere considerato “anomalo”, “fuori dalle righe”, “scorretto” o “disadattivo”. Ogni individuo è influenzato dalla matrice di significati condivisi, in cui è ed è stato immerso sin dalla primissima infanzia. Il disturbo e i sintomi ad esso associati non devono essere visti come un qualcosa di negativo, ma come una “spia”, un “segnale”, che la persona più o meno inconsapevolmente sta dando, per richiedere aiuto, sostegno e comprensione, e per dire che c’è qualcosa che “non va”. Da questa prospettiva il sintomo è FUNZIONALE, perché mira e tende alla risoluzione del “problema”, riportandovi l’attenzione.
L’aumento o la perdita repentina di peso è solo la parte più superficiale, la punta dell’iceberg! Contiamo che l’anoressia e la bulimia, tra le quali c’è alta percentuale di connessione e continuità, sono la PRIMA CAUSA DI MORTE NELLE GIOVANI DONNE. Per quanto riguarda la distribuzione per sesso nella popolazione, si può ritrovare una maggioranza di individui di sesso femminile, sebbene i casi maschili siano in aumento. Per ciò che concerne l’età di insorgenza del disturbo, si può dire che essa si sia abbassata, coinvolgendo anche le fasce della preadolescenza e dell’infanzia (con cui avrebbe forte associazione in concomitanza con la depressione).
La differenza tra la bulimia e l’anoressia sta nel fatto che la prima è connessa allo scarso controllo degli IMPULSI (si accompagna a frequente DISSOCIAZIONE PSICHICA in merito alle abbuffate compulsive), mentre la seconda è connessa all’eccessivo CONTROLLO di essi. Come vedremo, all’interno della semantica della famiglia, le bulimiche, o obese, solitamente si posizionano nel polo dei “perdenti” (di chi rinuncia e si mette da parte, identificandosi col più “debole”), mentre le anoressiche si posizionano nel polo opposto della semantica, quello dei “vincenti” (di chi lotta per un obiettivo, chi ha il pieno controllo su di sé e sugli altri, di chi ha sempre buoni risultati e tende verso un ideale di “perfezione”, di chi non può MAI arrendersi per mantenere la sua “posizione”, identificandosi di solito col più “forte” e associandosi a un certo senso di “onnipotenza”).
I disturbi alimentari si presentano quasi sempre associati ad altri disturbi psichiatrici: depressivo e/o bipolare (soprattutto obesità), dissociativo (in modo particolare bulimia), ossessivo-compulsivo (anoressia restrittiva) ecc…
Tendenzialmente il CIBO è visto come unico SOSTEGNO e AMICO, o come acerrimo NEMICO, da tenere debitamente a distanza e/o da rigettare.
La terapia familiare nasce nel 1873 con il TRATTAMENTO MORALE CON LA FAMIGLIA di Lasègue, per l’anoressia isterica. Successivamente questo approccio divenne più in vista, prima con gli studi di Charcot sull’ipnosi, e in seguito col celebre caso di Emmy Von N. di Freud (1895), descritto in “Studi sull’isteria”.
Per far riferimento a tempi più “recenti”, non possiamo trascurare la TERAPIA STRUTTURALE DELLA FAMIGLIA di Salvador Minuchin, in cui vengono presi in considerazione e valutati tre ambiti fondamentali nel caso di disturbo alimentare:
1) Confini familiari (si intende la presenza o assenza di confini ben stabiliti e chiari tra la famiglia di appartenenza nel qui e ora e altri nuclei familiari a essa connessi, come ad esempio le famiglie d’origine);
2) Coalizioni (confine “diffuso” e labile con un genitore, e un altro “rigido” con l’altro, in cui sarebbe facile l’insorgere di alleanze e contro-alleanze tra i membri della famiglia);
3) Violazioni generazionali (ovvero, il ruolo che spetta ai genitori può essere rimandato e lasciato al figlio, sovraccaricandolo di responsabilità e compiti che non competono la sua età).
Le CARATTERISTICHE insite nella maggioranza delle famiglie che si rivolgono a uno o più specialisti per un disturbo alimentare sono essenzialmente QUATTRO:
1) Invischiamento (eccesso di comunicazione e condivisione, scarso rispetto della privacy e degli spazi altrui, tendenza all’omologazione);
2) Rigidità (pensiero formulato sulla mutua esclusione di tipo “o-o”, non c’è una VIA DI MEZZO e non c’è spazio per la negoziazione);
3) Tendenze sovra-protettive (iper-controllanti);
4) Assenza di RISOLUZIONE DEL CONFLITTO (conflitti mai chiariti, sopiti, negati, mascherati e/o evitati, tendenza al “coprire” ciò che non va e non affrontarlo, causa spesso di immobilità decisionale e di azione, e alta conflittualità tra i membri).
Anche nella prospettiva di Valeria Ugazio, psicologa sistemico-relazionale e docente di Psicologia all’Università di Bergamo, l’invischiamento presente in queste famiglie sarebbe l’ostacolo più grande all’emergere del sentimento di ESSERE SEPARATI, favorendo un’insufficiente demarcazione tra sé e gli altri, e un’alta dipendenza dai giudizi e dalle valutazioni altrui.
Addentriamoci ora nel cuore della trattazione, prendendo proprio come riferimento la prospettiva sistemico-familiare della Ugazio, basata sulle “polarità semantiche”.
Cosa sono le polarità semantiche?
In ogni famiglia le conversazioni sarebbero organizzate intorno a polarità opposte di significato, del tipo: giusto/sbagliato, buono/cattivo, libertà/autonomia, ecc… Rispetto ad esse, i membri della famiglia assumerebbero inevitabilmente una posizione (chiamata “positioning”), collocandosi in una polarità o in un’altra, in modo che la matrice di significato nella comunicazione sia costituita proprio come un puzzle, con diversi pezzi che si “incastrano”. Essa forma la “trama narrativa” di un particolare nucleo familiare, definendo in sé aspettative, ruoli, modelli di comportamento e identità, direzionando e incoraggiando gli individui del gruppo verso “storie permesse”, e allontanandoli dalle “storie proibite”.
Nel caso dei disturbi alimentari la semantica dominante è quella del POTERE. Ovvero, le positioning si definiscono attorno alle polarità vincente/perdente, volontà/arrendevolezza, migliore/peggiore. In queste famiglie, se si ha successo e si è VINCENTI, significa che si è stati volitivi, dominanti, efficienti, perseveranti, mentre, se si è PERDENTI, si è stati arrendevoli, passivi, subordinati, deboli.
Il contenuto di questa matrice conversazionale è essenzialmente relazionale, quindi le identità e le scelte di un individuo sono influenzate dagli altri, poiché è possibile definirsi SOLO in relazione agli altri o in RISPOSTA agli altri. I valori predominanti sono: successo, potere, volitività, esteriorità (polo vincente); fallimento, soggezione, arrendevolezza, autenticità (polo perdente). I MOTI RELAZIONALI sono: adeguamento, vittoria, combattività, apparire (polo vincente); opposizione, perdita, arrendevolezza, sfigurare (polo perdente). Le EMOZIONI e SENSAZIONI ESPRESSE sono: vanto ed efficacia personale, per coloro che si posizionano tra i “vincenti”, mentre sono vergogna e inadeguatezza, per coloro che si posizionano tra i “perdenti”.
Nelle famiglie, che stiamo trattando, fare CONFRONTI con gli altri e sentire verso di loro “competitività” è la norma, e questa tendenza guida sia le relazioni interne al nucleo sia quelle esterne. Di solito, la Ugazio nota, nella pratica clinica, come nelle famiglie di provenienza dei coniugi (o compagni) ci siano storie di RISCATTO SOCIALE o appartenenza a RANGHI SOCIALI DIVERSI. Sarebbe per questo che le famiglie organizzate entro questa polarità sono molto sensibili ai criteri di successo e riuscita sociale, e al giudizio altrui. Sono infatti degli etero-attributori, cioè tendono ad attribuire la causa dei comportamenti patologici agli altri, e questa tendenza ha il suo apice nell’anoressia e nella bulimia.
Ciò che conta nelle conversazioni di queste famiglie non è la veicolazione dei contenuti, quanto l’imposizione della propria SUPREMAZIA e/o la RIBELLIONE contro di essa, vissuta e vista come “ingiusta”, perché c’è sempre “chi è più e chi è meno”. Proprio perché questa competizione è il regolatore instabile di queste relazioni, anche le identità dei membri sono instabili, insicure, poiché estremamente bisognose di CONFERME. Quindi, a un estremo ci sono membri che non cessano mai di lavorare e impegnarsi per mantenere la propria “superiorità” e il proprio senso di “onnipotenza” e controllo (di solito tipico dell’anoressia), mentre dall’altro estremo ci sono membri “oppositivi” che combattono questa presa di “potere”, ritenendola illegittima, e alleandosi spesso con i partner conversazionali della polarità “perdente” o “arrendevole” (tipico dell’obesità). Dunque i membri di queste famiglie possono sviluppare DUE STRATEGIE di reazione: ADESIONE o ANTICONFORMISMO.
All’interno di questi nuclei non c’è spazio per la libertà, perché libertà vuol dire “differenza”, e questo porta inevitabilmente a stabilire chi è superiore e chi invece è inferiore, dunque ogni tipo di differenza è colta e osteggiata, tesa a essere livellata, uniformata, negata, perché altamente temuta e potenzialmente destabilizzante. Minuchin, Rosman e Baker (1978) hanno definito “invischiamento” proprio questo ostacolare l’emergere del sentimento di essere “diversi”, “separati”, in modo da favorire una scarsa demarcazione tra sé e gli altri, in cui l’obiettivo principale è il CONTROLLO. Per Guidano (1987), questo STILE AFFETTIVO si può riassumere nel motto: “È condividendo le stesse opinioni, che ci accorgiamo di amarci l’un l’altro”. Per questo un altro TRATTO peculiare di queste famiglie è la PARALISI DECISIONALE: anche le scelte più banali diventano impossibili o inattuabili.
Di solito, nel caso dell’anoressia, il paziente assume il ruolo di LEADER del gruppo, ovvero la “patologia” rappresenterebbe un POTERE grande, in grado di GOVERNARE e MUOVERE la famiglia. La superiorità di un qualsiasi altro membro della famiglia viene regolarmente disconosciuta e contestata aspramente da altri membri che si collocano nella polarità opposta. Per cui “esteriorità” e “forma” sarebbero tratti che esibiscono i “vincenti”, mentre “autenticità” e “sostanza” sarebbero caratteristiche identificabili con i “perdenti”.
In queste famiglie la RELAZIONE contestualizza sempre il Sé, che non è mai sovraordinato ad essa. La sintomatologia attiva della patologia emerge quando insorge un “DILEMMA”, dal quale la persona non riesce a districarsi, e questo è il momento clou della tensione interna. Nel caso dei disturbi alimentari il dilemma è: OPPORSI o ADEGUARSI?
Da un lato, uniformarsi alle aspettative altrui equivale a essere umiliati e sopraffatti, dall’altro, opporsi equivale a privarsi delle figure di riferimento, essere rifiutati, esclusi, dato che sono “famiglie CLAN” In entrambi i casi si metterebbe in serio pericolo l’integrità del Sé.
Per opporsi e contemporaneamente mantenere il legame con le figure di riferimento, le anoressiche e le bulimiche ricorrono al digiuno o a condotte di eliminazione del cibo ingerito (tra bulimia e anoressia c’è una certa continuità). Per cui il CIBO diventa un’area di scontro, combattimento, che allo stesso tempo permette di perpetrare la relazione con l’altro, da cui c’è una estrema dipendenza. I genitori di questi pazienti di solito prendono come sconfitta e attacco personale la condizione dei figli, e riportano sentimenti di vergogna e delusione.
L’anoressia in questi contesti, e potrebbe essere paradossale, è “adattiva” alla situazione familiare che si vive, dove molto spesso il paziente è stato investito di responsabilità e incarichi che non gli competevano né per la sua età né per il suo ruolo; il più delle volte gli anoressici sono stati “bambini adultizzati” e hanno scelto la strategia dell’adeguamento. La drammaticità della sua condizione riporta l’anoressica/o nel ruolo di figlia/o, ristabilendo il confine generazionale.
Nel caso dell’obesità il discorso si ribalta, la strategia scelta da questi individui è quella dell’opposizione. Sono di solito persone accondiscendenti, che non riescono a imporsi, che detestano stare al centro dell’attenzione, con bassa autostima, e che si battono (attraverso l’iperalimentazione), per difendersi da chi sta in posizione “superiore” e detiene il “potere” ingiustamente. Questa situazione vissuto con disagio e inadeguatezza. L’obesità non è considerata, ad oggi, un disturbo mentale, ma le vite di queste persone possono risultare seriamente in pericolo, per cui l’iperalimentazione può portare, se non arginata, può condurre alla morte, così come nel caso dell’anoressia grave.
Di solito, il cibo rappresenta e veicola un legame affettivo con le figure di riferimento, dunque, o assolve a una funzione di compensazione, compagnia, riempimento o consolazione (più spesso nel caso dell’obesità e nelle abbuffate compulsive della bulimia), o di accusa, punizione, colpa, controllo, accostamento a vincenti “ideali di perfezione” (nel caso delle condotte bulimiche di eliminazione e dell’anoressia, in special modo di tipo restrittivo).
LA PROSPETTIVA DELLA “MADRE DRAGO” nell’anoressia:
La madre drago dell’anoressica/o sarebbe una MADRE BAMBINA mai cresciuta, con tratti istrionici e narcisisti di personalità, che concepisce il figlio o la figlia come una PROSECUZIONE DEL SÉ e non come un essere diverso, staccato e autonomo. I figli, quindi, per essere amati devono confermarla, rientrare nelle sue “grazie”, nelle sue aspettative e pretese, in parole povere: SI DEVONO SUDARE IL SUO AFFETTO! Essi si sentirebbero RESPONSABILI dell’equilibrio e della felicità di una madre instabile, fragile, in “balia del mondo” e degli eventi; se venisse disillusa o disconfermata o contestata, potrebbe “rompersi”.
Sono madri che devono essere SALVATE, così i figli diventano una medicina potente di cui “nutrirsi” per essere sicura, per sentirsi forte, per allontanare le frustrazioni e la solitudine. Solitamente, nella maggioranza dei casi, il padre “sostiene” questa spirale, anche inconsapevolmente, e non è in grado di agire in modo attivo per arginare i danni che questo rapporto morboso ha sul fisico e la psiche della prole.
Nel caso dell’emergere di un disturbo alimentare all’interno della famiglia, gli equilibri vengono messi a dura prova, e le emozioni che vengono fuori solitamente sono: rabbia, vergogna, impotenza, ansia. I genitori dei pazienti con anoressia, di solito, faticano molto ad ACCETTARE che il figlio o la figlia abbia un PROBLEMA, la cui origine potrebbe essere, in gran parte, derivante da loro. ACCETTARE comporta prendersi in prima persona la RESPONSABILITÀ della condizione del figlio, un’accettazione di un FALLIMENTO, di aver commesso degli ERRORI, e questo va a destabilizzare il loro ego, solitamente fermo alla fase narcisistica dello sviluppo.
Per l’anoressico/a non mangiare non significa non aver fame, anzi, significa AVERLA e decidere di NON SFAMARSI, questo per affermarsi e avere finalmente il completo controllo di sé. In realtà, le persone che soffrono di questo disturbo alimentare hanno una grande FAME D’AMORE, di comprensione, di accoglienza, di affetto senza pretese, senza condizioni, senza forzature o “debiti”, senza dimostrazioni. In parole povere, l’anoressico/a non rifiuta il CIBO, ma la MADRE che gli/le risucchia tutte le ENERGIE, che si CIBA di lui/lei.
Il corpo scheletrico e mortifero dell’anoressica è l’impersonificazione dell’OMBRA PERSONALE (legata all’esperienza con la figura materna divorante) e COLLETTIVA (adesione a ideali culturalmente deviati di conformismo e uguaglianza, come livellamento delle differenze, IN UN MONDO DOVE TUTTI SONO UGUALI, NESSUNO È QUALCUNO). SCOMPARIRE è necessario per ESSERCI, è un grido di PRESENZA NEL MONDO come essere UNICO e PADRONE DELLA SUA VITA, che il soggetto vuole dare…
“[…]in stretta adesione ad un mito di rigida UNITÀ FAMILIARE che non si può trasgredire e che blocca la famiglia in un eterno presente senza futuro. La ragazza anoressica vive il duplice ruolo di difendere questo mito, rimanendo con le fattezze di una bambina, che segue “vincoli invisibili di lealtà” per regredire e proteggere la famiglia, e, al tempo stesso, trasgredire questo mito, perché il suo digiuno ostinato spezza traumaticamente la tranquillità familiare.” (Onnis, 2005).
Molto spesso l’angoscia di separazione e la paura dell’abbandono caratterizzanti queste famiglie, sono estese per almeno tre generazioni, perché anche la madre della paziente anoressica era ed è investita, a sua volta, da “debiti affettivi” verso la propria famiglia d’origine, con cui solitamente intrattiene un rapporto invischiante e altamente morboso e dipendente.
“Una madre che chiede alla figlia di colmare il suo stesso vuoto, proietta in lei i suoi bisogni, la sua impossibilità a reagire, diviene a sua volta una bambina che cerca nella figlia la madre contenitore che non ha avuto.” (Winnicott, 1985).
“L’anoressica, figlia di una madre Drago che vuole divorarla, non può far altro che ridurre il proprio corpo, renderlo solo ossa dure, impenetrabili e inaccessibili. Solo così potrà salvarsi dalla madre divoratrice.” (Recalcati, 1997).
Prendendo in esame il punto di vista di Carl Gustav Jung in merito, possiamo fare riferimento all’archetipo della Madre Drago che sarebbe:
“simbolo della madre bisognosa che non può permettere ai figli di andarsene, perché ha bisogno di loro per la sua stessa sopravvivenza psichica.”
Questa madre ETERNA BAMBINA è una madre all’apparenza fragile, ma nel rapporto con i figli terribile, pretenziosa, capricciosa, iper-controllante, asfissiante, che tende a DIVORARLI prima che riescano a reclamare un’eventuale separatezza da lei. L’anoressia sarebbe una PROTESTA, un gridare “Ci sono anch’io”, un’opera EVOLUTIVA di “auto-salvataggio” e “auto-affermazione”, attraverso una lenta distruzione del proprio INVOLUCRO corporeo.
Poiché l’anoressia e i disturbi alimentari in generale non hanno come “sfondo” dinamico soltanto l’ambiente familiare (il quale in questa sede è stato solo in piccola parte trattato), ma anche quello più ampio della cultura, della società e del periodo storico di appartenenza, sarebbe necessario e auspicabile affiancare a questa analisi familiare anche un’attenta analisi socio-culturale, che comprenda anche la COSCIENZA COLLETTIVA della nostra epoca e i lati Ombra e negativi che vivono in essa e CONDIZIONANO e influenzano, consapevolmente o inconsapevolmente, le condotte, i pensieri e i modi di porsi alla vita dei singoli, in relazione a se stessi, agli altri e al mondo.
Carlotta Cadoni
Fonte: https://carlottacadoniblog.wordpress.com/
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