ALLA RICERCA DEL DIO PERDUTO
1. Perché Dio è chiamato “Dio”?
E’ una delle parole più brevi del vocabolario italiano. Ma è anche una delle più ricorrenti nel nostro linguaggio quotidiano. Cambiano i tempi, nuove filosofie prendono il posto di altre, vecchie religioni cedono il passo ad altre forme di culto e devozione e intanto avanza la tecnologia. Eppure quella parola, quel nome “Dio” ha attraversato i millenni per giungere fino a noi, in modo più o meno invariato.
Ma per dirci cosa?
Chi studia le lingue antiche (e l’evoluzione delle lingue moderne) sa bene che le parole nascono con un significato che finisce poi con lo smarrirsi nel tempo. Quanti oggi sanno ancora che il termine dispregiativo ‘imbecille’ derivava da ‘imbaculus’ cioè ‘zoppo’? Quanti che ‘persona’ nell’originario etrusco trasposto nel latino antico significava ‘maschera’? Le parole che comunemente usiamo sembrano ormai rappresentare solo un concetto, un’idea che noi abbiamo di un qualsivoglia argomento. Eppure in origine esse avevano un significato ben più complesso. Chi studia le lingue antiche o nutre una personale passione per l’evoluzione del linguaggio sa ancora individuare parte del loro significato: filosofia (da filos= amore e sophia= sapienza, dunque ‘amore per la sapienza’), democrazia (da demos=popolo e cratia=governo), previdenza (da pro=prima e video=vedere), archeologia (da archeos=antico e logos=studio). Ma la stragrande maggioranza dei cittadini usa parole di cui non sa in effetti quale sia bene il significato, le utilizza insomma come fossero dei… pittogrammi, cioè delle semplici figure alle quali gli antichi facevano corrispondere un significato o addirittura un discorso compiuto!
Qualche esempio spicciolo? Prendiamo la nota marca di calzature Nike: nonostante quello che la pubblicità vuol lasciarci intendere non è un termine inglese ma greco, non si pronuncia ‘naik’ ma ‘nike’ e vuol dire ‘vittoria’. Che dire poi di ‘bus’? Anche questo non è un termine inglese ma è una desinenza (cioè la parte finale di una parola) latina, non si pronuncia ‘bas’ ma ‘bus’. E così via. Le parole da noi usate insomma sono state ormai a tal punto private del loro significato originale da aver conservato ben chiaro solo quello al quale oggi corrispondono, sebbene approssimativo e impreciso. Per farla breve, non sarà una sorpresa se un giorno parole chiare come ‘attaccapanni’ avranno un significato oscuro e indecifrabile per quanti verranno dopo di noi.
Inevitabile dunque la domanda: che fine ha fatto il significato originario di ‘Dio’? Cosa significava in realtà fin dalla notte dei tempi? Dove si è perduto il valore semantico che gli antichi gli attribuivano? Ma soprattutto quando nacque questo nome e a chi si riferiva? E perché gli antichi parlavano di ‘dei’ e non di un ‘dio’ solo?
2. Quattro passi a ritroso nel tempo
Il tempo seppellisce i ricordi e quanto allora era ovvio, oggi spesso non lo è più. L’uomo non se ne va però senza lasciare traccia. Manufatti, edifici, epigrafi, testi antichi, miti. E’ tutto sotto i nostri occhi da secoli e millenni. E così fu per gli uomini prima di noi e per quelli prima di loro. La loro comprensione però ci risulta praticamente ormai impossibile. Come mai? Beh è come se l’uomo del futuro cercasse di capire a cosa servivano chiodi e martello. Strumenti che egli non ritrova più nella sua cultura, perché ormai inutili e sostituiti da una tecnologia sofisticata. Non è colpa sua dunque intorno a lui non ci sono più punti di riferimento che gli chiariscano le idee. Non ci sarebbe quindi da stupirsi se pensasse che erano strumenti utilizzati dai progenitori ‘meno progrediti’, magari per adorare il proprio dio!
Così oggi è pure per i nomi delle divinità. Cosa ne sappiamo in realtà? A quali originari significati essi riconducono? Non sono domande strane, se si pensa che anche per noi quello che era un tempo un semplice aggettivo è divenuto oggi un nome: il nome Giorgio per esempio deriva dal greco antico ‘gheorgos’ “agricoltore”. E il nome Alfredo risale al periodo longobardo, composto presumibilmente dalle due parole *alda (saggio-nobile) e *frithu (pace), dunque “saggio nella pace”. Ma chi se ne ricorda ormai più? Difficile dunque capire una cultura politeistica (molti dei) dai nomi più svariati e particolari.
La presente ricerca nacque da una constatazione curiosa unita alla passione per le divinità antiche in particolare quelle romane e greche: i nomi delle divinità romane e italiche erano spesso accompagnati da particolari attributi, aggettivi, appellativi come dir si voglia. Tipo: Pater, Mater, Divus (deus), Diva (dea), Rex, Regina. Il lavoro si prefisse allora lo scopo di individuare i nomi di dei (o teo-nimi) romano-italici cui fossero accompagnati tali attributi; di verificare la costanza di tali associazioni, escludendo quelle casuali; di ricercare le ragioni di tali associazioni, in relazione al valore dell’attributo come eredità trasmessa dalle popolazioni indoeuropee fino alla natura e alle funzioni della figura divina. La ricerca venne organizzata in una prima parte con alcuni capitoli di tipo introduttivo per una sintetica contestualizzazione della cultura linguistica e religiosa prima indoeuropea poi dell’Italia antica, fino a restringere il campo alla Roma arcaica e alle civiltà italiche in generale. In una seconda parte, sulla base dell’analisi delle fonti, vennero fatte precise considerazioni sul valore degli appellativi esaminati, cercando di puntualizzarne il ruolo accanto ai teonimi e proponendo delle precise differenziazioni o sottolineandone le analogie a seconda dei contesti. In una terza parte infine vennero ordinate tutte le fonti raccolte sulle quali si fonda la ricerca stessa.
La catalogazione delle fonti fu il primo nucleo di partenza per l’elaborazione di alcune ipotesi di lavoro. Dopo aver selezionato il materiale letterario, attraverso il Thesaurus Linguae Latinae la ricerca si rivolse, per quanto riguarda i testi epigrafici, alle raccolte di iscrizioni latine, il Corpus Inscriptionum Latinarum (C.I.L. ), le Inscriptiones Latinae liberae rei publicae (I.L.L.R.) e l’Anneé épigraphique (A.E); per il materiale epigrafico italico di fondamentale supporto furonoe la raccolta del Vetter (VE), la sua integrazione ad opera del Poccetti (PO) e le rassegne periodiche della REI in ‘Studi Etruschi’.
Poi vennero selezionate proprio le fonti che presentavano l’appellativo PATER–MATER, DIVA (dea)–DIVUS (deus), come aggettivo o attributo del nome divino (diva Angerona, dius Fidius). Per fare ciò venne utilizzato un procedimento di riduzione a favore delle compresenze contestuali di Nome + Attributo e con esclusione di tutti quei casi in cui l’appellativo si presentava non in prossimità del nome stesso, in primis per DIVUS-DIVA, DEUS-DEA. In quest’ultima circostanza l’appellativo spesso assumeva una sua connotazione specifica, come nome stesso: DIVUS-DIVA (ed i corrispettivi DEUS-DEA) col significato di ‘dio-dea’, per segnalare la presenza di una divinità di cui il contesto parlava.
3. Premessa sulla ricostruzione culturale indoeuropea:
Anche se il concetto di indoeuropeo richiama subito concetti di tipo linguistico, è evidente che l’ipotesi di una lingua non possa non sottintendere una comunità di parlanti, caratterizzata da una specifica cultura. Su quest’ultima cominciarono ad interrogarsi i linguisti non appena la grammatica comparativa sviluppò il concetto di indoeuropeo. Si preferisce parlare di Antichità Indoeuropee, ben sottolineando l’impossibilità di una ricostruzione storica attraverso documentazioni scritte o archeologiche: la lingua, pur nelle sue gravi lacune, appare essere l’unico sostegno dello storico.
La lingua, soprattutto il lessico, sottintende tutto un mondo ed una cultura alla cui ricostruzione in campo indoeuropeistico si sono dedicati da tempo molti studiosi con risultati a volte anche incoraggianti ma non sempre condivisi da tutti gli specialisti. Oggi la ricostruzione, come osserva M. DORIA, è molto più cauta che in passato ed i risultati, pur essendo meno sensazionali, paiono più aderenti ad una logica dei fatti e sottoposti ad un maggior controllo critico.
Nella ricostruzione di una cultura o ideologia indoeuropea uno dei casi più famosi di proposta si deve senza dubbio allo studioso francese G. DUMEZIL.
“Ho proposto di chiamare tale struttura, per brevità, ‘l’ideologia delle tre funzioni’. I principali elementi e ingranaggi del mondo e della società vi sono ripartiti in tre ambiti armoniosamente connessi che sono, in ordine decrescente di dignità, la sovranità con i suoi aspetti magici e giuridici e una sorta di espressione massimale del sacro; la forza fisica e il valore, la cui manifestazione più vistosa è la guerra vittoriosa; la fecondità e la prosperità…”
Secondo DUMEZIL la cultura indoeuropea veniva dunque rappresentata dalla compresenza di tre funzioni: sacrale, politica ed economica (ideologia tripartita). Tale ideologia sarebbe sopravvissuta per millenni alla disgregazione i.e. come parametro dei singoli popoli.
Gli Indoeuropei rappresentarono dunque il mondo e la società secondo tre ordini gerarchizzati cui corrispondevano tre funzioni: amministrazione magica e giuridica, forza guerriera e fecondità. Sotto il re, per DUMEZIL, il corpo sociale si sarebbe dovuto perciò disporre in tre gerarchie sociali. Alcune leggende facevano risalire questa tripartizione ad un re, fondatore e progenitore, i cui tre figli avrebbero generato queste tre classi. Altre narravano come l’equilibrio tra le tre funzioni si fosse stabilito dopo un periodo di crisi interna che avrebbe condotto sia alla fusione tra razze buone divine o umane sia all’asservimento della razza cattiva alla buona. Vi sarebbe stata poi una divisione delle funzioni e alla razza asservita sarebbe toccata la terza funzione.
Un evidente riscontro può essere individuato nella storia di Roma. Quando in età arcaica i Romani vollero ricostruire le origini della città introdussero le figure dei tre re con cui si esprimevano chiaramente le tre funzioni dell’ideologia i.e.: Numa Pompilio rappresentava il sacro, Tullo Ostilio l’aspetto militare e Romolo, fondatore dell’Urbs stessa, l’aspetto economico. Così come la triade di Giove, Marte e Quirino, anteriore a quella capitolina (Giove, Giunone, Minerva), accoglieva la totalità delle funzioni in un unico tempio, centro religioso e morale della città ad indicare l’inscindibilità delle stesse. I Romani dei tempi storici erano lontani da rappresentazioni simili e non avevano più una chiara coscienza di questa trifunzionalità. Ma la fossilizzazione dei tre flamini maggiori, la triade dei loro re, la definizione ancora ricostruibile delle tre tribù primitive, la leggenda della guerra delle Sabine e della fusione dei popoli di Romolo, di Lucumone e di Tazio per DUMEZIL sono evidente traccia che in un tempo remoto e sfuggito al ricordo queste antichità avevano un valore fondamentale.
“Lo studio non cessa di progredire… Parallelamente, un’indagine più lenta si propone di determinare, in tutto il mondo, quali società, rare, al di fuori degli indoeuropei, riuscirono a rendere espliciti e a porre al centro della riflessione i tre bisogni che ovunque costituiscono l’essenziale, ma che la maggior parte dei gruppi umani si limitano a soddisfare senza teorizzarli: il potere e il sapere sacri, l’attacco e la difesa, l’alimentazione e il benessere di tutti.”
Pur riconoscendo a Dumezil l’evidente merito di aver posto un problema che tra i primi gettò un ponte tra la cultura indoeuropea e le culture ad essa collegate, non si può non cogliere come l’espansione della teoria del trifunzionalismo oltre all’ambito indoeuropeo abbia portato ad un indebolimento e poi alla perdita della significatività della stessa; molte furono le polemiche in cui si impegnò lo studioso francese per dimostrare che tale ideologia era fattore esclusivo dell’Indoeuropeo. In realtà si è poi giunti da molte parti a ritenere che si trattasse di una costante sociale e non di un carattere peculiare della cultura i.e., così come era stato affermato.
Nell’ambito religioso, nonostante il molteplice impegno teso in tal senso, si è potuto identificare con certezza il nome di una sola divinità indoeuropea comune, *Dyeus, sulla base di una comparazione con il gr. Zeus, ved.Dyau-, lat. Iuppiter, itt. sius che parrebbero presupporre quest’identica matrice i.e.
Per E. BENVENISTE è singolare che alla base di quella che doveva esser stata una religione con tutte le implicanze rituali e cultuali sia rimasta questa sola traccia nel termine che in sostanza ci esprime semplicemente la nozione stessa di “dio”. Ciò che se ne può in primis ricavare, soprattutto dalla forma DEIWOS, è il suo significato specificamente luminoso e celeste perfettamente opposto a quello terrestre dell’uomo.
Secondo CAMPANILE la probabile ragione di un tale silenzio va ricercata nel fatto che in tale religione non aveva alcun senso la figura precisa di un dio, bensì la funzione che egli rappresentava, così da consentire alle genti i.e. di recepire le divinità straniere, a patto che vi fosse l’esatto riscontro della funzione che esse rappresentavano nella propria cultura religiosa.
“Si rivela ancora in piena età storica nell’interpretatio romana dei pantheon stranieri: i Romani ogni volta che venivano a contatto con la religione di un popolo barbaro attribuivano a ciascuno di quegli dei il nome della divinità romana che a loro giudizio aveva identica funzione.”
Del resto, riguardo al ricostruito *Dyeus, il metodo lessicalistico rivela tutti i suoi limiti nella ricostruzione culturale. Indubbiamente vi è una coincidenza di significanti ma non dei relativi contenuti religiosi. Se Iuppiter eZeus sono espressione perfetta della prima funzione altrettanto non può dirsi per l’itt. sius evolutosi a nome di tutta la comunità e per il ved. Dyau-, relitto cultuale già nei più antichi testi. Indubbiamente, nell’indianoDyaus, nell’italico Juppiter, nell’ellenico Zeus così come nel germanico Tyr-Zio, possiamo trovare forme storiche evolute di questa divinità celeste primordiale che rivelano perfino nei loro nomi il binomio originario ‘luce’(giorno), ‘sacro’ (Cfr. il sanscrito div, ‘splendere, ‘giorno’, dyaus, ‘cielo’, ‘giorno’; dios, dies; deivos, divus).
Dall’esame dei termini di parentela si è cercato invece di determinare quale fosse la struttura interna alla famiglia i.e., dal momento che l’antropologia ci insegna come tale individuazione non sia per nulla universale e come ogni società possegga i suoi parametri classificatori.
Non solo: per certi termini, con significati diversi nelle lingue storicamente attestate, è arduo definire un significato univoco a livello i.e. Né li si può considerare, per il fatto di appartenere all’ambito parentale, esenti da innovazioni semantiche e formali (cognatus “consanguineo” nelle lingue romanze subisce ad es. un’innovazione semantica.)
O. SZEMERENY ha deciso di rinunciare all’analisi della struttura interna della famiglia i.e., a favore di un recupero della collocazione sociale ed effettiva dei suoi membri attraverso l’analisi etimologico-lessicalistica dei singoli lessemi. Ma i lati spesso troppo oscuri della maggior parte dei nomi di parentela, che si infrangono nel fondo più antico della lingua, portano in qualche caso lo studioso a realizzare teorie per lo più insostenibili. CAMPANILE sottolinea come SZEMERENY sembri peccare nello stabilire precisi e irrinunciabili vincoli relazionali nel sistema parentale (il padre è tale rispetto ai figli, lo zio è tale rispetto ai nipoti etc.) e propone invece un’ analisi attraverso il metodo testuale.
La famiglia i.e. pare avere il suo incontrastato signore (*potis) nel padre inteso come il pater familias romano.
La sua autorità appare così illimitata da essere sin dall’origine insita nell’appellativo stesso di “padre” con cui ci si rivolge agli dei: non si vuol con questo intendere l’opera di creazione (allora inconcepibile) bensì il potere assoluto sugli uomini. Il femminile *potniH non deve farci pensare ad una pari autorità della moglie, anche se in età storica giunge a noi col valore di “signora”: esso stava semplicemente ad indicare “ciò che appartiene al*potis” (un’affermazione che a distanza di anni non mi trova più concorde, se consideriamo che la divinità femminile veniva in realtà venerata alla pari del dio maschile, ndr).
Secondo CAMPANILE è proprio l’emancipazione dei membri della famiglia dall’autorità dispotica a costituire il carattere originale e non i.e. della moderna civiltà occidentale, pur con vaghe premesse già nel mondo greco e romano.
Ma dice DEVOTO:
“Affermare l’esistenza di un PATER e di un DYEUS primitivi, capo di una famiglia patriarcale l’uno, luce trasformata in persona divina l’altro, è conclusione corretta secondo i canoni della comparazione all’antica. Non è ancora una valutazione vera delle forze interne che hanno agito. Non è ancora una conclusione storica sufficiente.”
Non reputa soddisfacente neppure un parallelismo con ricostruzioni di stampo etnologico o archeologico quali la forma della proprietà terriera attinente alla famiglia, se individuale o collettiva, o la presenza o l’assenza di immagini raffiguranti la divinità. Il salto da una parola (o nozione) latina o greca a una indoeuropea rimane come qualcosa di astorico.
“Per entrare nel mondo della storia, al salto tra due punti, occorre sostituire l’immagine di una linea il più possibile continua che li colleghi.”
Può essere un percorso agevole se si considerano coppie trasmesse in maniera indisturbata come pater, nelle diverse lingue indoeuropee. Di fronte a tale stabilità non deve passare in secondo piano l’utilità di una ricerca che non parta da situazioni uniformi ma anche da quelle squilibrate come i casi notissimi delle coppie del tipo ignis etc…
Ci si chiede allora alla luce di queste analisi perché la terminologia della famiglia sia per lo più paragonabile per stabilità a quella della coppia isolata pater e perché al contrario la terminologia della religione presenti anomalie sia di tipo fonetico-morfologico sia di tipo lessicale. In ogni caso anche la più persistente stabilità, secondo DEVOTO, può subire delle anomalie semantiche determinate dall’ambiente o nuove differenze lessicali che si sovrappongono.
4. Divus (deus) e diva (dea)
1.2.1. Gli dei indoeuropei: Dyaus come personificazione del cielo.
I nomi delle divinità supreme indo-ariane rivelano i loro legami organici col cielo sereno e lucente.
Non c’è dubbio, per ELIADE, che le manifestazioni metereologiche (tempeste, fulmine, tuono) non mancassero nel *Dyeus originario. Il fatto che il nome del dio indo-ario Dyaus metta in rilievo il carattere lucente e sereno non esclude le altre teofanie uraniche come uragani e pioggia dalla personalità di Dyeus. Le forme storiche delle divinità celesti indo-arie difficilmente sarebbero riducibili ad una serie di teofanie uraniche. Elemento decisivo della loro personalità è la sovranità e il prestigio della sovranità, per ELIADE, non è interamente spiegabile col sacro celeste. Nel caso di Dyaus certamente un tempo fu autonoma figura divina ma col tempo si sarebbe specializzato in senso naturistico, cessando cioè di essere rivelatore della sacralità uranica e divenendo espressione lessicale dei fenomeni uranici diurni (‘cielo’, ‘giorno’).
La divinità del cielo insomma cede il posto ad una parola che esprime il ‘cielo’ ed il ‘fenomeno diurno’.
Questa laicizzazione di Dyaus non vuol però dire indebolimento della teofania celeste ma semplicemente la sostituzione di Dyaus con un’altra divinità. ‘Naturalizzandosi’ e cessando di esprimere il sacro celeste, decade dal suo ruolo di dio supremo uranico. Molto presto, già in epoca vedica (XIV sec.), il dio Varuna lo avrebbe sostituito, conservando sufficientemente gli attributi uranici ma non riducendosi a sola divinità del cielo.
Parrebbe indubbiamente questa una involuzione assai curiosa: dalla cultura alla natura. Secondo D. SABBATUCCI, però spiegabilissima in termini antropologici.
“Prima c’è l’uomo che ignora la natura del cielo e lo mitizza o divinizza; poi finalmente la scopre ed il nome divino personale del cielo diventa nome comune di cosa. Donde l’evoluzione da una fase religiosa dell’umanità alla fase scientifica.”
Non si può negare che un Dyaus paragonato a Zeus e Iuppiter crei problemi per non essere ‘sovrano’ come gli altri due. Non si può non chiedersi perché Dyaus, pur essendo ‘cielo’, non goda della ‘sovranità’ mentreIuppiter e Zeus sono diventati sovrani a partire da una nozione i.e. del cielo che, come Dyaus dimostra, non implica la sovranità. Dyaus, nella distinzione di SABBATUCCI, è padre di ogni cosa, Zeus come dice Omero è padre di dei e di uomini, Iuppiter contiene la paternità nel suo stesso nome al nominativo derivato da un vocativo. Lo studioso ritiene necessario allora che
“se lo scopo è di individuare una realtà fenomenica superante le espressioni storiche ci si deve fermare a ciò che accomuna (nello specifico: la paternità), senza tener conto di ciò che distingue (nello specifico: la sovranità)…”
Il cielo per DEVOTO diventa allora spunto lessicale per questa divinità personificata e ben conservata nel vocabolario, DYEU- che rappresenta il dio della luce attiva. Un cielo che non ha nulla a che vedere con la funzione di coperchio del mondo o con una forma di tipo convesso.
Per DEVOTO i caratteri i.e. del cielo sarebbero stati dunque tre: 1) il legame con la nozione di luce; 2) la connessione di tale luminosità con il senso dell’autorità attraverso la presenza quasi costante di un appellativo come PATER (v. Iu-piter latino “Giove padre”); 3) la determinazione spaziale che lo contrappone alla terra e all’uomo, creatura terrena.
Secondo DEVOTO la singolarità di questa figura è ancor più grande se si tien conto che DYEUS è il solo termine davvero religioso sopravvissuto nel vocabolario.
I suoi legami, nonostante tutto, sono molto più saldi con la terra che non con la luna. Dalla folgore, a lui strettamente collegata nel cielo, scende in terra associato alla quercia. La qualifica di padre, per DEVOTO, lo eleva acapostipite di dei ma anche di uomini, come è evidente dalla formula omerica padre degli dei e degli uomini. A detta del DEVOTO a fianco di una simile figura non sembra esserci una figura corrispondente femminile i.e., una dea-madre che presieda cioè a dei ed uomini.
Un grande rivolgimento centrale sta nelle manifestazioni di opposizione contro DEIWOS, il termine che definisce nelle aree marginali la divinità in senso preanimistico. DEIWO- è connesso con DYEU- e come quello è strettamente associato alla nozione di luce. Delle due basi lessicali di partenza, quella che ha assunto il valore di nome proprio ha assicurato la stabilità sufficiente. Si trattava di una divinità primitiva, giustificata dall’aspetto naturale più appariscente: quello del cielo brillante. Era estranea al culto dei morti, ignorava le superstizioni del fato, gli assilli dei beni della natura. La distinzione quindi tra dio e demone, presente già nei termini delle aree marginali, era evidente: deus in latino, deva- in sanscrito, tivar nel pl. norreno.
Sfondo alle immagini uraniche si presenta invece la terra, GHYEM. A differenza di DYEUS che pare gravitare più attorno alla concezione di “luce” che non ad una personificazione, la terra sembra conservare una pur labile traccia di immagine che la sua classificazione femminile le consente, opponendola al concetto maschile di pioggia, identificato come seme fecondatore. DEVOTO ricorda inoltre che in tempi più recenti la Terra verrà associata alla figura della Madre.
1.2.2. Continuatori della radice *diew- nel pantheon romano: Iuppiter, Ianus e Diana
La presenza del termine latino deus è chiaro indice di una matrice di tipo indoeuropeo comune ad altre culture i.e.: ai. devá-h, av. daeva-, lat. deus o divus, ambedue dal paradigma *deivo- (> deos), osk. deívaí, anord. tivar, acorn. duy, bret. doué etc.
Questo costituirebbe la prova che, in qualunque modo se ne voglia precisare il significato, *deivo- intende un essere individuale, personale e pienamente costituito.
Alcune tra le divinità considerate basano la radice del proprio nome su questo che noi conosciamo innanzitutto come appellativo di più figure divine. Tra di esse emergono in primis Juppiter e poi, con le dovute riserve del caso, Ianus e Diana.
Il nome di Juppiter (*diew-> diow-> iow-), si ritrova in osco, in umbro o nei dialetti latini. L’origine è indiscutibilmente indoeuropea e ad essa corrisponde il gr. Zeus e il vedico Dyauh. L’etimologia suggerirebbe la sfumatura ‘cielo luminoso’. Qui per DUMEZIL si verrebbe a commettere un errore:
“Una volta riconosciute l’antichità e la trasparenza del nome, se ne conclude che il Giove primitivo altro non fosse che quanto significa tale nome e ci si fonda sul valore dell’omonimo dio vedico, che in effetti non è altro che il Cielo e non possiede altra funzione che la paternità universale, manifesta anche nell’espressione Dyauh pita. Questo e solo questo i padri dei romani avrebbero trovato nel loro retaggio.”
DUMEZIL invece ricorda che non esiste solidarietà limitativa tra il nome e la definizione di un dio, tra l’etimologia e la comprensione di un concetto divino. Divinità con nomi diversi possono in effetti occupare posti omologhi in strutture parallele e, inversamente, divinità dallo stesso nome possono esser scivolate in posti diversi. Non si può perciò sulla base di una comparazione tra i nomi di Iuppiter e Dyauh Pita concludere per la loro omologia quanto a funzione.
Zeus d’altro canto richiama una complessità tipicamente romana e che si allontana secondo DUMEZIL a sua volta da Dyauh. L’etimologia del nome induce a pensare solo che ab originis, nella preistoria i.e., *Dyeu- in conformità al suo nome sia stato soltanto ciò che Dyauh continuò ad essere. In realtà, alcune trasformazioni si inserirono nelle tappe di evoluzione delle divinità delle culture i.e. Zeus e Giove continueranno dunque ad essere sì dei-cielo ma in più dei sovrani e folgoratori. Secondo DUMEZIL
“Giove, inoltre, non è neppure dio-cielo allo stesso modo di Dyauh. Prima di aver accolto l’insegnamento greco, i romani non sembrano essersi preoccupati di prospettive troppo remote nell’universo e delle meraviglie che le popolano; nella loro religione il sole e la luna non hanno quasi parte e non hanno parte le stelle… La volta celeste, ciò che si trova oltre l’azzurro che svaria in nero, per la città latina non presenta maggior interesse di quanto sta al di là dal grande mare.”
Il Dyauh vedico era tutto ciò, mentre lo Zeus greco rimaneva pienamente celeste annettendo l’atmosfera e agendo soprattutto in essa: l’Olimpo si trova infatti nell’arco dello spazio che va dalla terra al cielo. Il Giove romano scende di livello: situato su delle alture si avvicina sempre più alla pianura. Egli non è tanto signore della luce serena o del calore quanto della folgore e dei fenomeni suoi propri come la pioggia e il temporale.
A prescindere da quale sia effettivamente la linea di separazione e di unione tra l’antico i.e. Dyeus e le divinità di tipo celeste delle successive culture i.e. derivate, non c’è dubbio però per il DEVOTO, come ha ben sottolineato in Le origini Indoeuropee (Firenze 1962, p. 220), che se la connessione con la luce era a tal punto evidente e così la contrapposizione automatica alla terra e all’uomo, non si possa ignorare un aspetto certo che sembra collegare direttamente il senso della luminosità (div-) al senso dell’autorità, dato dalla costante presenza dell’appellativo *pHter. Questo è senz’altro chiaro nella forma latina Juppiter e nell’espressione vedicaDyauh Pita.
Tale aspetto, che vede il lessema Divus legato all’appellativo Pater, risulta ai fini di questo studio di estremo interesse e ne darò testimonianza in un esame più dettagliato degli elementi raccolti dalla comparazione delle fonti.
Circa la problematicità del carattere uranico o specificamente solare di Ianus va ricordato, secondo SABBATUCCI, che a prescindere dalle interpretazioni della bassa antichità che tendono a spiegare ogni cosa con la teologia solare, l’influsso dell’uranismo di Max Muller fa derivare il nome Ianus dalla radice *deiw-/div-, la stessa del nome di Giove ricostruendo un *Dianus (secondo il modello Iovis <*Diovis). Inevitabile perciò la connessione con Diana e la conseguente conclusione uranistica: Diana era la luna, Ianus il sole.
Ianus sarebbe stato invece, per GRIMAL, la deificazione del movimento, il principio stesso dell’energia cosmica. Nel I a.C., gli studiosi (tra i quali lo stesso Cicerone) dicevano che il suo nome in realtà era Eanus “colui che va”, perché il mondo sferico compie per l’eternità la sua rivoluzione, secondo il perfetto moto circolare. Ianus significava dunque l’Inizio e la Fine, il Futuro e il Passato, introdotto in un divenire eterno col suo doppio viso.
Nascerebbe quindi l’incertezza sul come spiegare il rapporto di Ianus con Diana: anch’essa deriverebbe dalla stessa radice? Sulla base di un’etimologia varroniana che faceva derivare da “via” il nome della dea (quasi “De-viana” che avrebbe dato luogo a Diana in sostituzione di un teonimo originario Iana, dalla radice i.e. *ya, che indicherebbe l’azione di “andare” (v. lat. i-re)) l’accostamento Ianus-Diana riacquisterebbe un qualche significato. Si è cercato pure di connettere entrambe le teorie, pensando ad un “andare” come “cammino del sole e della luna che orientano l’uomo sul trascorrere del tempo. Il che del resto si addice alla funzione calendariale di Ianus.”
Anche J. FRAZER considera Ianus come una corruzione del nome Dianus e fa derivare la coppia Diana-Diano (o Ianus-Iana, qualsivoglia) dalla stessa radice, alla stregua della coppia Iuno-Iuppiter. Meglio ancora, ritiene che l’una sia duplicato dell’altra, e nella sostanza e nel nome come le corrispondenti divinità greche Zeus e Dione.
La teoria che Ianus sia ab originis un dio celeste e solare per J. S. SPEYER è il non voler riconoscere la possibilità che una divinità così antica fosse puramente astratta. Egli non condivide minimamente il tentativo degli studiosi di spiegare l’etimologia del nome di Ianus sulla base della radice *deiw.
Se veramente il nome di Ianus è della stessa categoria di Diana, perché non c’è alcuna traccia della forma primitiva supposta *Dianus? Secondo SPEYER del resto neppure lo stesso Nigidio Figulo, promotore nell’antichità di questa teoria, riuscì a presentare delle testimonianze convincenti che la provassero e certo non avrebbe omesso di segnalare la presenza di qualsiasi traccia in iscrizioni o documenti letterari, se ne fosse venuto a conoscenza. Il culto del dio, quale è giunto in nostro possesso, non offre alcun appiglio a questa tesi. Il dio dimora in cielo ed è uno dei di superi, ma non si manifesta in primis come dio dello splendore, essendo ben altre le sue prerogative. Può esser possibile che un dio con le sue caratteristiche sia “solare”, ma di certo “… ce n’est pas la nature lumineuse du soleil, comme on se la figure dans la personne de Hélios rayonnant ou meme d’Apollon, dans Sol, dans Surya et Vivasvant…”
L’ipotesi che un dio degli inizi come Ianus possedesse un carattere astrale e solare al suo ingresso a Roma e che col tempo fosse scaturito in tutto il suo valore non è sufficientemente provato per J. GAGE’ sulla base del solo culto o del rapporto talvolta suggerito del suo nome con quello di Diana. Ritiene però che
“bien avant Macrobe, dont les convives dissertent des cultes anciens, on le sait, dans le cadre de la fete des Saturnales, donc dans la deuxieme quinzaine de décembre, ceux des lettres ou penseurs, initiés aux hautes speculations des religions orientales ne pouvaient manquer du reconnaître en Janus, dieu de la plus ancienne Rome, une première figure de cette divinité essentielle”.
Avvalendosi della fonte di Macrobio, attraverso cui ci è nota l’etimologia proposta da Nigidio Figulo, G. CAPDEVILLE afferma che dal punto di vista fonetico l’esempio ben attestato di Diovis, parallelo alla forma di Iuppiter prova che il gruppo iniziale *dy- può sia conservarsi in di- oppure ridursi in yi. Ma la possibilità teorica di questa etimologia
“n’implique nullement qu’il faille l’adopter;… en fait elle tend à privilégier un aspect particulier du dieu…”.
Secondo CAPDEVILLE poi presenta l’inconveniente di ammettere la formazione sulla base della stessa radice dei nomi di Iuno e Iuppiter, ipotesi che agevola sì coloro per cui Ianus è “an older Iupiter” come A. B. COOK ma che costituisce più una conseguenza di questa concezione che non una prova in suo favore. Escludono invece PROSDOCIMI e RIX la possibilità che il teonimo Iuno sia corradicale di Iuppiter. Esso deriverebbe piuttosto dalla parola proto-i.e. H2ieuH3on- ‘vitale, giovane; ‘ cfr. lat. iuvenis.
CAPDEVILLE ritiene comunque che lo SPEYER abbia addotto un argomento decisivo alla negazione definitiva dell’etimologia Ianus<Dianus, sottolineando la evidente mancanza di attestazioni di *Dianus, dato che non ritiene sostenibile la testimonianza dell’iscrizione CIL, V, 783 dedicata a IOVI DIANO, poiché non ci permette alcun riferimento a Ianus.
Per R. SCHILLING non c’è dubbio che tale derivazione si ispiri semplicemente a preoccupazioni più di carattere dottrinale che non linguistico. Secondo lui, era il tentativo dei suoi adepti di provare la essenziale natura solare o lunare del dio.
5. Conclusioni
Un tempo dunque era Dyeus.
Era la figura divina indoeuropea più importante di cui però oggi poco sappiamo se non quanto hanno trasmesso radici linguistiche comuni provenienti dalle lingue antiche. Di *Dyeus rimase traccia infatti come già detto nei nomi delle divinità supreme indo-ariane che rivelavano profondi legami col cielo sereno e lucente (Dyaus, Zeus, Iuppiter etc.) ma soprattutto negli appellativi con cui molte divinità erano connotate nel mondo romano-italico (Deiva Genita, Diva Angerona etc.). Una situazione questa ben chiara agli occhi di uno scrittore come Varrone (n°17A)
“Hoc idem magis ostendit antiquius Iovis nomen: nam olim Diovis et Di<e>spiter dictus, id est dies pater: a quo dei dicti qui inde et dius et divum unde sub divo, Dius Fidius. Proprio questo fatto mostra il nome più antico di Giove: infatti un tempo era detto Di<e>spiter e Diovis, che equivale a Dies pater, da cui quelli che ne discendono sono detti dei, e così dius e divum da cui l’espressione sub divo e Dius Fidius” (Varrone, n°17A)
Era poi curioso il fatto che accanto ai teonimi fossero compresenti ambedue le forme deus-dea e divus-diva, ricorrenti senza un apparente preciso criterio.
Dalla ricerca sulla cultura indoeuropea era risultato che con ogni probabilità due basi lessicali erano coesistite per indicare il cielo e la luce: DEIWO- e DYEU- (Devoto 1962, p. 309).
DYEU- avrebbe sostituito la primigenia base DEIWO- (che intendeva l’aspetto naturale più appariscente, quello del cielo brillante), snaturatasi poi a favore della precedente, consacrata dalla figura divina i. e. DYEUS.
E’ probabile che gli dei romano-italici, connotati da un appellativo che li rendesse esseri divini degni di culto, ab originis presentassero la base DEIWO- (divus, diva) con cui si esprimeva la brillantezza.
In seguito, stabilizzatisi come divinità, si sarebbe perduta la sensibilità di attribuzione di Divus-Diva a favore della base lessicale DYEU- (deus, dea). Quest’ultima avrebbe finito coll’indicare una figura divina personalizzata, che conservava ormai solo marginalmente il riferimento all’ambito della luce.
Come già ricordato poc’anzi insomma a un certo punto “l’uso di Divus-Diva, Deus-Dea parve stabilizzarsi senza una precisa logica: Angerona, Bona, Rumina venivano connotate egualmente sia da Diva (anche se in occorrenza maggiore) che da Dea. Probabilmente i romani non avevano più sensibilità per tale attribuzione. L’utilizzo però di testi antichi e formulari, su cui essi spesso si basavano, testimoniava continuamente la presenza di divinità cristallizzate talora in Divus-Diva (Angerona, Rumina etc.) talora in Deus-Dea senza più una precisa distinzione della reale differenza. Il culto inoltre, divenuto ormai meccanico, non avrebbe consentito di risalire all’originaria causa di attribuzione per ogni singola divinità. L’uso romano diveniva quindi inconsapevole e spesso immotivato”.
Quando cinque anni fa presentai questa tesi, ero ben lungi dal credere che un giorno mi sarebbe servita ancora. Ricordo solo che prima di decidere il da farsi, volevo con tutte le mie forze una ricerca linguistica, possibilmente archeologica, sulle divinità antiche che per anni avevano accompagnato le mie letture di bambina e ragazzina. Dopo la laurea la riposi nel cassetto pensando che non l’avrei più toccata. Ma il destino ha spesso vie tortuose e imprevedibili. Le fonti esaminate, le conclusioni raggiunte (succintamente raccolte nelle righe sopra) mi hanno condotta a nuove riflessioni che qualcuno potrà anche non condividere ma che hanno una logica affascinante: i cosiddetti ‘dei’ (ma prima era ‘dio’, come insegnano gli Indoeuropei, cioè quel mitico popolo di cui poco sappiamo ma che sulla base di una lingua diffusa in tutto il Mediterraneo e anche nelle terre del Nord deve essere esistito; un popolo contemporaneo ai Sumeri, un filone di popolazione che si è distribuita nel restante mondo conosciuto?) non sembrano esser stati tanto ‘spirituali’. Sarebbe la loro stessa connotazione, il loro nome, insomma quel nome divenuto poi un qualsiasi aggettivo usato per sottolinearne l’autorità, ad affermarlo.
‘Dio’ significava ‘brillantezza, luce’. Una definizione ben lungi da quella che affibbiamo al nostro dio: ineffabile, infinito, perfetto, infallibile, incorruttibile. Aggettivi che sottintendono un significato spirituale. Negli dei antichi invece nulla di tutto questo ma qualcosa di molto umano o comunque di molto ‘solido’.
Difficile dire da cosa nacque la parola ‘dio’: forse qualcuno un giorno vide qualcun altro e rimase colpito dal suo splendore, dalla sua luce, dal suo colore cangiante? E nella sua lingua lo definì come lo vide: luce, brillante? Forse si trattava di un abbigliamento particolare (una tuta spaziale laminata?) o forse di razze di uomini mai vedute prima (cosa avrebbero detto uomini abituati all’aridità del deserto, di carnagione scura, di fronte a uomini di carnagione bianca, magari colpiti in volto dalla luce del sole? Non avrebbero forse dato l’idea di uomini ‘brillanti’, come a noi oggi gli uomini di colore danno l’idea dell’oscurità, uomini neri?). La storia della lingua comunque non sbaglia: qualcosa doveva significare. Perché all’inizio era sufficiente a identificare il personaggio a cui si riferiva (oggi noi capiamo cosa significa il nome proprio ‘Primo’ o ‘Settimo’ ma tra 100 anni?), mentre poi nei millenni divenne solo un banale aggettivo, a indicare solo la superiorità di un essere rispetto a un altro ma niente più. Al punto che i tanti dei acquisirono nomi personali per distinguersi gli uni dagli altri (Giove, Minerva, Saturno, Apollo etc.). C’è da rilevare un ulteriore fatto però: il dyeus indoeuropeo (per quanto è dato sapere, ovviamente, dalle poche fonti individuate) era un dyeus appunto, niente di più. Solo le divinità successive, quelle che faranno parte del pantheon latino, italico, etrusco, greco etc. assumeranno connotazioni di comando, di autorità, di paternità sugli altri dei. Come se prima ci fosse stato una sorta di ‘capostipite’, un essere unico e dopo di lui fossero seguiti degli emissari, degli uomini pronti a far rispettare il suo volere.
Fonte: www.tg0.it
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QUALCHE PICCOLO CONSIGLIO DI LETTURA
samanta
e se semplicemente,venisse da : ‘DA ME-DA IO togli la A e metti l’accento, x la grammatica si puo,quindi D ‘ IO e nel tempo è diventata una sola parola,quindi DIO.
se noi siamo DIO . tutto torna…..
samanta
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L’origine della parola theodisce non ha nulla a che fare con THE o DIE – anche perchй l’uso degli articolo si diffonde solo alcuni secoli piщ tardi.