Il Vuoto
Articolo di Vincenzo Crosio, storico della conoscenza
Il concetto di sostanzialità vuota, in Oriente come in Occidente, è l ‘esperienza di ‘vano’, lo stato inadeguato dell’uomo. Ma è anche una considerazione che vale per lo spazio costruito, che vale per tutto lo spazio dell’universo tempo. Quello che sembrava un elemento di separazione tra Oriente e Occidente, si sta dimostrando di essere una ‘incensura’ del tempo che solo la fisica relativistica e la fisica quantistica è in grado di capire. Obiettivamente però lo Zen ha anticipato di almeno sette secoli questo concetto nella sua filosofia della prassi.
C’è un elemento fondamentale che unisce in un certo senso l’Occidente e l’Oriente, l’ossessione della semantica del vuoto, vale a dire il nichilismo trascendentalista della vacuità. L’Occidente che sembra così distante dall’Oriente, in realtà è unito da un punto, un ponte sull’abisso del vuoto che in qualche modo Friedrich Nietzsche lancia nell’Anticristo e nel suo così inumano Zarathustra. Non c’è nessun luogo e nessun ente, ma solo la mente illuminata del Buddha, ovverossia la coscienza infinita e vuota, la mente natura senza determinazioni, l’hishiryo, ku. Il ku, (空), sunyata, la vacuità, diventa così la somma a zero tra Oriente e Occidente. “Il maestro Dogen ha detto che è necessario pensare senza pensiero. Questo è Hishiryo, l’essenza dello zen, il segreto di sedere in zazen. È al di là del pensiero soggettivo, coscienza assoluta, senza pensieri. È lo spirito vuoto, ku o mu” (1). Così il Maestro Deshimaru, primo ambasciatore dello Zen in Europa. Da qui fino a diecimila kalpa e poi ancora oltre, la semplice Mente risplende. Il paradosso dello Zen, l’insegnamento del Buddha, la verità del Dharma è tutta in questa semplice affermazione: non c’è nessun luogo e nessun ente, così come il pensiero occidentale ha pensato sin dalle origini il pensiero nel senso del suo darsi luogo e il pensiero del mondo nel senso che il mondo sia il luogo del pensiero (2). Almeno fino all’intuizione di Heidegger del pensiero come un venir incontro dell’oggetto, il mondo del fenomeno, alla percezione del mondo del soggetto stesso e che di fatto inaugura un altro sentiero nella filosofia del maestro di Marburgo. Almeno fino alla scoperta della neurobiologia di base in Vittorio Gallese ed altri, almeno fino a Merleau-Ponty. Questa intuizione è espressa in “Cosa significa pensare” ed è un’opera pubblicata nel 1954, ma che ha radici sin dagli anni trenta, e che rappresenta un fertile terreno d’incontro con la filosofia giapponese (3). Sempre il maestro Deshimaru espose la verità del Dharma con altrettanta sconvolgente semplicità: esistenza senza noumeno (4). Espressione che, a chiunque abbia dimestichezza con la problematica, mette i brividi, perché si va a collocare dentro quell’argomento, vasto come l’oceano, che va sotto il nome di crisi dei fondamenti. La filosofia occidentale, dopo Heidegger, ruota intorno al collassamento dei fondamenti. Tutta la filosofia del Novecento, tutto il pensiero scientifico del Novecento è sostanzialmente in linea di catastrofe con l’ontologia e l’ontologia del fondamento, del terreno fondativo, (grund), della sostanzialità dell’esperienza. Un abisso dopo Nietzsche si è aperto nel pensiero occidentale; da san Tommaso ad Heidegger, non c’è argomento che non venga radicalmente messo sotto sopra dalla critica dei fondamenti (5). Il pensiero abissale di Nietzsche, pone alla filosofia il compito dell’oltrepassamento e dell’eterno ritorno, come sponda metafisica del nulla, e per conseguenza l’accettazione dell’abisso del tempo come critica radicale alla ontoteleologia dell’essere (6).
Il Maestro Dogen (1200-1253), l’autorevole maestro che fondò la scuola dello Zen Soto, in Bussho, così definisce la natura sostanziale degli esseri: “bisogna intendere la natura del Buddha come non natura del Buddha poiché la natura del Buddha, il Dharma, è vacuità”. E in Maka kannaharamitsu: “Quando la verità della saggezza si dispiega e si realizza, ci dice che la forma è vacuità, che vacuità è forma; la forma è forma e la vacuità e vacuità” (7). Che di fatto nega ogni sostanzialità sia alla realtà che alla non realtà. Fisica, metafisica e logica, vengono di colpo spazzate via, con un oltrepassamento del pensiero stesso, che non significa la meta-metafisica, ma ben altro, l’imprenscindibile e l’impensabile, due categorie che l’Occidente ha pensato come necessità e libertà, come vincolo e non vincolo, ma tutto qui, come storia e non storia. Questo è il pensiero Zen nella sua maturità piena e feconda, la negazione di ogni sostanzialità: l’impermanenza riguarda tutto l’ordine del condizionato, del costruito biologico, mentale, umano e non umano. Ma come approcciare tutto questo? Come ricostruire secondo un codice universale quello che sembra una schisi tra Oriente e Occidente? Attraverso una metodologia che appartiene alle conquiste dell’Oriente come dell’Occidente, l’epistemologia semantica inaugurata proprio nello Zen, dalla vacuità, la coscienza Hishiryo di Maestro Dogen e nell’Occidente dalla filosofia del vuoto come espressione di virtualità, il cyberspazio. L’ombra delle cose significa che le cose appaiono in una modalità, non sono quella modalità.
Un insegnamento così radicale è di difficile comprensione alla mente ordinaria e più in generale ad una mente di un “Occidentale”. Intendendo per “Occidentale”, l’uomo che vive costantemente con l’ossessione di un ente, di un qualcosa, nella dicotomia polare di un soggetto, l’ego percipiente, e di un oggetto, la cosa percepita. Dell’ego, del non ego, della vita, della morte. Solo nel Novecento europeo Husserl osò riprendere la sconvolgente aporia del pensiero nuovo della Stoà, antitesi e splendido esito della speculazione dottrinaria della Grecia ellenistica: la coscienza estetica, la percezione della realtà era in realtà un dialogo, una interrelazione in cui la soggettività della mente incontrava una realtà che la modificava e costituiva una coscienza assoluta (8). Splendida intuizione ripresa ancor prima dal napoletano Vico, che così spiegava il paradosso della mente che conosce la realtà oggettiva e la realtà della mente stessa, gli universali, le categorie del giudizio, per intu-ire, andare verso la mente di Dio (9). Ciò che egli chiamava un lascito zenoniano. Dunque siamo al centro della meravigliosa dottrina esposta nell’Hokyozanmai, il Samadhi del prezioso Specchio: come contemplandovi nello specchio, la forma e il riflesso si guardano. Non siete il riflesso, ma il riflesso è voi.
Che assume una coloritura e sonorità tutta particolare nella traduzione poetica, creatrice di nuovo senso, del maestro F. Taiten Guareschi, abate del monastero zen di Bargone, in Salsomaggiore: Al prezioso specchio la forma guarda il riflesso. Tu non sei quello, ma quello è te (10).
Dove il carattere speculare della forma e del riflesso letteralmente corre a “costituire” il te, una singolarità momentanea di un agire di un vibrato cosmico. Un’onda di una bioinformazione, il kannodoko di maestro Dogen (11). Più o meno, ma similmente nel principio informatore della natura del creato nel Genesi: E Dio li creò a sua immagine e somiglianza. Tradotta magnificamente nella intuizione della forma del corpo e della mente, dell’anima in san Tommaso d’Aquino, il padre della teologia dottrinaria della natura del Cristo (12).
Nell’ebraico antico del Genesi troviamo: be-salmenu ki-dmutenu, a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza. Nella nozione di selem, immagine, c’è anche un sostrato di oscurità (sel, ombra). Come se la Scrittura volesse dire: il corpo e la sua ombra, la forma e il suo lineamento, la sua silhouette, il suo riflesso (13). Dogen riprende questa somiglianza filiale con l’origine quando introduce alla fine di una speculazione dialettica, dialogante, il principio di risonanza cosmica, kanno-doko, nella formazione dell’io liberato nella gioia del samadhi realizzato. Non so se Kannon, Kanjizai, il bodhisattva del Libero e Illimitato vedere che predica la vacuità di ogni forma nel Sutra del Cuore, il suo andare verso il mondo, sia anche il Buddha che verrà della tradizione dharmica, il Maitreya, non so se ha questo senso e questa direzione. Sarebbe davvero una intuizione gloriosa della rappresentazione estetica, artistica della fede nel Buddha. Un semidio che annuncia esteticamente, porgendo il piede davanti nell’atto dello scendere a terra, la sua venuta, il suo accadere. Certamente il “kan” di Kanjizai bosatsu, il primo incip dell’Hannya Shingyo, il Sutra della Perfetta Sapienza che nei monasteri si recita ogni mattina, è questo: colui che guarda attentamente! (14). Sguardo risvegliato è certamente il kenbutsu, la visione di un buddha. Ed è anche in questa visione che occorre intendere l’annuncio dell’avvento del Messiah nella tradizione ebraica e cristiana. Massiah è propriamente ciò che è inviato da Dio, il suo messaggero diremmo con ordini particolari, l’interpretazione esatta e aggiornata di una Informazione celeste, in questo caso il vero senso della Thorà, della Rivelazione di Dio (15), il senso profetico del guardare avanti! Gli uomini hanno difficoltà a realizzare la Parola di Dio, il Verbo, nella Incorporazione yavheica, hanno difficoltà a realizzare il Dono del Risveglio nella Incorporazione dharmica (16). L’essere buddha è dunque la sua realizzazione nella forma di un riflesso singolarmente riuscito, realizzato, il realizzarsi della natura di buddha nell’incarnato. Nella illuminazione, – satori realizzato di una mente risvegliata -, c’è la consapevolezza di una appartenenza alla natura universale del Buddha, il Corpo universale e riflesso di ogni Buddha, il Dharmakaya (17). Così come nel Sutra del Diamante la questione è posta: in un universo stellato specchio di una realtà infinita ma illusoria, noi siamo dunque una luce illusoria del perfetto diamante, un prodotto dell’evanescenza dell’universo mondo: “Come stelle, un difetto della vista, come lampada, un finto spettacolo, gocce di rugiada, o una bolla, un sogno, un lampo balenante, o nuvola, così dovrai vedere ciò che è condizionato” (18). Non diversamente, in verità, pensavano ad esempio i filosofi del circolo fiorentino nel Cinquecento, almeno nell’aspetto analogico e simmetrico al mondo degli uomini, il cosmo. E ancor prima Platone nel Timeo. Né è differente da come pensano i filosofi cabalisti, la differenza e la somiglianza tra il mondo celeste e il mondo terreno e il grandissimo pensiero speculativo arabo dopo l’anno mille p.c.n. (19).
Questa speculazione, questo pensiero di uno speculum, questa riflessione così giunta a maturazione attraverso la tradizione, gli insegnamenti tramandati, inducono ad un’ulteriore osservazione che riguarda la natura dei fenomeni, o meglio alla natura fenomenologica degli eventi. L’evento, l’accadere di una cosa, -kuge -, il non luogo di nessun ente che realizza l’esistenza, (esistenza senza noumeno di Deshimaru), in realtà è la vera rivoluzione epistemologica che l’Insegnamento del Buddha introduce nella storia del pensiero e del pensiero religioso. “Ogni cosa è fenomeno, cioè pura e semplice manifestazione, vuoto segno e come tale è il suo apparire, il suo scomparire, come se apparisse, come se scomparisse. L’errore è credere sia alla sua continuità, sia al suo nascere dal nulla che al suo morire nel nulla” (20). La manifestazione della natura del Buddha, la sua realizzazione, Myoshu, la sua realizzazione meravigliosa, è un Evento di tipo schizomorfico; introduce nella permanenza del Dharma, una riflessione, una scansione speculare, l’esserci temporaneo di una cosa, la sua singolarità nel tempo, una increspatura nello spazio tempo (uji). Così dice maestro Dogen a proposito dell’esistenza-tempo: “Il modo in cui organizziamo il nostro sé costituisce la forma del mondo intero. Dovete considerare che ogni creatura e ogni cosa del mondo intero costituisce tutto il tempo (tokidoki)… A causa di un principio indescrivibile, il principio dell’esso (inmo), della talità, esistono diecimila immagini e centinaia di erbe in tutta la terra, benché ogni tipo di erba e di immagine rifletta la terra intera… e poiché non esiste altro all’infuori di questo preciso momento (toki), l’esistenza tempo è tutto il tempo e l’esistenza dell’erba e l’immagine è tempo. Ogni momento è il mondo intero che esiste totalmente nel tempo” (21). Che è il pilastro della scuola Huayan cinese (22).
Quando il Buddha mostra il fiore, rigirandolo tra le mani, mostra il mostrarsi dell’Evento, dell’accadere della natura universale, la non natura, la natura differente, una sua differenza perché temporalmente impermanente. La moltiplicazione di una differenza ne costituisce la sua natura, nel differimento continuo, il suo eternarsi. L’origine di una cosa, il suo evento,è la manifestazione evidente della Thatà, della capacità creatrice dell’evento, della capacità realizzativa dell’evento. La percezione estetica del fenomeno, soggettivamente inteso, è una speculazione, una intuizione della similarità all’evento, nella differenza, in una differenza. Cioè il costituirsi nella dilatazione del tempo di una forma, del nama e di rupa (nome e forma) della tradizione sanscrita (23), il costituirsi di una catena di eventi similari all’origine ma differenti nella forma e nel nome; nella sua costituzione individuale, la coproduzione condizionata che è la vera maturazione e la vera rivoluzione nell’esperienza genetica in Buddha Shakyamuni, così come ci è stato tramandato dall’Apologo della giovane pianta di riso, il Salimbastra sutra, e nel Grande Dialogo delle cause, il Maha Nidana Suttanta (24). L’esserci, il caso delle cause, il kairòs. L’En-ge e il ka, Il farsi del momento, in un unico svolgimento temporale (25).
Nelle parole del Buddha stesso si coglie l’eccezionalità radicale della sua rivoluzione epistemologica nei confronti dell’insegnamento braminico tradizionale: “Colui che sa che gli elementi sono vuoti e privi di sé, conosce il risveglio dei Buddha” e ancora: “Colui che ha compreso che gli elementi hanno la natura delle illusioni e dei sogni, che come un tronco di banano sono privi di un nucleo, che sono simili ad un’eco, colui che percepisce tutti gli elementi come uguali, vuoti, privi di ogni diversità e individualità, che non vede elemento alcuno, costui, nella sua grande saggezza, vede l’intero corpo del Dharma.” (26)
Ma nella straordinarietà dell’Evento noi riconosciamo l’Avvento del Cristo e del Buddha, l’avvenire di una Realizzazione al di sopra di ogni Immaginazione: l’oltre del tempo. La fondazione di una esperienza cultuale di questa dimensione (per intenderci: la dimensione del Tempo e dell’essere del Tempo nella riflessione di Dogen, commisurata alla riflessione della scienza moderna, fenomenologica, relativistica e elettroquantistica) (27), può essere, deve essere detta solo con un linguaggio che sorprende nel suo farsi, nell’evenienza del miracolo, nel myoshu, questo esserci della cosa presente, il suo esse deus. Il linguaggio di questo accadimento, dell’Avvento, non può essere altro che un linguaggio rituale, memoriale ossequioso che testimonia di una coscienza realizzata dell’evento stesso. Come ben vide Walter Benjamin in Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo: “Nell’uomo Dio ha lasciato uscire la lingua, che Gli era servita come mezzo della creazione, liberamente da sé perché questa forza creatrice divenisse conoscenza” e “Questa forza creatrice, privata della sua attualità divina, è divenuta nell’uomo mezzo di conoscenza. L’uomo è ora il conoscente della stessa lingua in cui Dio è creatore”(28).
L’oscenità del tempo presente non sta solo nella sua radice nichilista, ma soprattutto nella incapacità di vivere questa dimensione relativa dell’Evento Cosmico, l’incorporazione dharmica. Questa coscienza nell’umano si realizza nel Gesto della sacralità, la liturgia. È il gesto del fedele, di colui che nella fede, esprime col suo cuore donato, una “dottrina”. Credere è letteralmente donare il proprio cuore. È immergersi totalmente nell’esperienza del creato, nel sentimento filiale di gratitudine per l’esperienza dell’universo mondo: “Con il termine Sacro intendiamo dunque ciò davanti a cui il sentimento di un uomo bennato risponde con il bisogno di inchinarsi e d’inchinarsi come non si potrebbe davanti a nulla di soltanto terreno. È qualcosa di misterioso e insieme di determinato, di straniero e insieme di intimo. Lo si percepisce al lume delle stelle, dinanzi alla vastità del cielo, ma è altra cosa dai corpi cosmici e dallo spazio; emerge dal mondo ma arriva da altrove” (29). L’altrove dell’altro come differenza e differimento, come luogo di un inabitato, è ciò di cui si occupa le fenomenologia del sacro, la religione.
Krd, l’antico vedico per cuore, kardya, è anche la radice di credere, credenza ma anche creatura e creare (30). La fede e il gesto che testimonia di questo riconoscimento, di questa riconoscenza, è una pratica estetica, nel doppio senso dell’aver visto e nel testimoniarlo in modo che sia visibile: la visibilità che testimonia dell’altrimenti inconoscibile. Scrive Merleau- Ponty in L’occhio e lo spirito: “L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile… si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso” (31). Se non ci fosse l’altro che testimonierebbe del me, del noi, come potemmo dire la verità incongrua di un evento? Se non ci fosse lo specchio chi testimonierebbe del volto? Se non ci fosse l’ombra chi testimonierebbe di un corpo? Se non ci fosse Tommaso chi testimonierebbe del Cristo? Se non ci fossero gli occhi chi testimonierebbe del mondo? Questa sensibilità era già chiara all’estensore di un testo mandeo in cui si celebra questo incontro tra realtà immaginali, speculari, dell’io e del non io: “Vado incontro alla mia Immagine e la mia Immagine mi viene incontro; essa mi abbraccia e mi stringe a sé, quando sono uscito di cattività”, e negli Atti di Tommaso: “La veste mi apparve ad un tratto, quando la vidi davanti a me,simile ad uno specchio di me stesso. La vidi tutt’intera in me, ed io tutt’intero in essa,perché eravamo due,distinti l’uno dall’altro, e tuttavia uno solo di forma simile” (32).
Ed è esattamente ciò che afferma R. Guardini, il maggior filosofo dell’atto religioso del Novecento insieme con R. Bultmann, sulla fenomenologia dell’atto conoscitivo: “L’atto essenziale dell’occhio consiste nell’afferrare l’autentico che appare nei dati immediati” (33). Questa funzione del comprendere attraverso uno sguardo che spesso a noi sfugge, della vista sugli altri sensi, per cui noi siamo testimoni della realtà, è ben presente invece in un passo delle Confessioni di sant’Agostino: “…il vedere, in effetti, è compito precipuo degli occhi; e tuttavia ci serviamo del verbo vedere anche a proposito degli altri sensi, quando li usiamo per conoscere: certo non usiamo dire “Senti come risplende” o “Annusa come è brillante”, ma non solo diciamo “Vedi come è luminoso” perché questa è una sensazione che solo gli occhi possono cogliere, ma anche “vedi come suona”, “vedi che odore ha”, …perché il compito di vedere, che spetta innanzitutto agli occhi, è assunto per similitudine anche dagli altri sensi quando debbano esplorare qualcosa da conoscere” (34). In “La visione culturale”, capitolo primo de “La foresta di piume, manuale di etnoscienza”, G.M. Cardona scrive: “Pur ricorrendo spesso nel linguaggio ordinario alle metafore visive (“punto di vista”, “angolo visuale”, “a prima vista”, etc.), raramente o mai ci si accorge che proprio la visione in sé e per sé è la più potente metafora conoscitiva che ci si offra per capire i nostri procedimenti mentali e poi semiotici… sappiamo abbastanza bene come funziona la nostra visione, sappiamo abbastanza bene la differenza tra il sembrare (phainestai, to look out, paraitre) e l’essere di una certa cosa (una roccia, una pozza d’acqua) e ci comportiamo di conseguenza. Sappiamo anzi giocare con la nostra visione, dedicando molte ore della nostra vita a seguire le immagini che su un muro o su una lastra descrive un fascio di luce in movimento, lasciando che queste ci divertano, o ci commuovano, o ci descrivano cose che non sapevamo” (35).
La manifestazione religiosa di tutto questo, il sentimento di timore e rispetto, di stupore filosofico (il thaumazein di Platone) o di questa testimonianza della realtà che appare ed è percepita dai nostri sensi, è il gesto simbolico che ci significa, significa all’io e al noi, al mondo, la presenza, il pre-esse della cosa e la nostra presenza alla cosa, l’argomento della talità, ciò di cui si parla; l’argomento teo-logico che pone in un linguaggio dei segni, ciò che lo spirito, l’anima dice, in quel dichten poetico, in quel dettato dell’anima che è la fonte di ogni atto significativo: l’impulso semiogenetico della parola, il suo kerigma, il suo annuncio, in quanto voce che chiama e voce che ascolta. Questo è un argomento a mio parere fondamentale su cui riflettere come argomento veritativo. Nella parola “voce” vaca in sanscrito, c’è già ciò che si dice, è annunciato il detto della parola, (w)auga, sto parlando di una cosa, sto annunciando la verità presso cui sta una cosa, il valore semantico della parola e il suo contesto. L’altro etimo che ci autorizza in questa direzione è bha parlare, in latino fo, fas, fari, che origina nel culto latino fas opposto a ius, il diritto divino fas, non è il diritto degli uomini. Dunque la parola sacra bha, origina un ordine giuridico indipendente dall’ordine giuridco umano. Fatum e fama, il fato e la leggenda, il detto e la parola come leggenda nel nesso impersonale, ne tramandano il carattere oggettivo, contestuale ad ordine cosmico, divino. Volontà espressa, detta, con una parola dal divino. I Dogon, chiamano dogon se stessi, ma dogon sono anche coloro che si ritrovano nella capanna per parlare. Dunque Dogon significa: parola, capanna e coloro che parlano nella capanna. Gli Amerindi Shoshoni sono chiamati dai loro vicini Serpenti, ma solo perché usano costruire le loro tende con legni intrecciati come i serpenti. A loro volta i Sioux sono chiamati così perché sono quei maledetti serpenti, insulti delle loro tribù nemiche, ma loro sono i Dakota.Un indovino Dogon poi usa una lingua e nomi che non gli appartengono. Alla sera disegna sulla sabbia la cosmogonia dogon, l’albero genealogico della tribù. Poi aspetta che di notte la volpe del deserto la calpesti e la mattina legge nelle tracce lasciate , i segni della sua lingua divinatoria. (36)
“In quello che per noi è il più noto tra i vari miti delle origini, il primo atto di Adamo è quello di dare nomi a tutti gli animali del creato, operazione fondamentale nell’economia della creazione. Come a dire che i vari organismi non possono compiutamente venire in essere se la loro entità non viene doublè di un nome, di un’etichetta linguistica. Ogni cultura riserva una certa quantità di memoria a un catalogo di segni linguistici che descrive il mondo biologico, i fenomeni naturali, le conformazioni dell’habitat e in particolare la flora e la fauna”. In un’altra esperienza veritativa, l’Iliade di Omero, Omero stesso o chi per lui, sente il bisogno di fare “Il catalogo delle navi”, di dire, di far capire a chi sente e legge dell’avventura achea contro Troia, chi sono le tribù elleniche, i loro capi, le loro tradizioni, i nomi, di quanti partecipano dell’impresa. La catalogazione dunque non è solo un elenco nominativo, ma il segno distintivo di una classe, di un individuo, di una nazione. È la narrazione epica o religiosa, il dispiegamento significativo della memoria (37).
A mio parere, non si dà l’esatto valore di esperienza veritativa all’esperienza religiosa perché non si ha il coraggio di metterne in campo i criteri epistemologici, di verificazione, come se sottilmente le prove di una verità religiosa fossero dubbie o addirittura pericolose per gli stessi ricercatori, essendo stato smarrito lo statuto per cui presso i popoli e presso i filosofi dell’esperienza, l’esperienza religiosa è un fatto di riconoscimento di una realtà che non si può dire se non con linguaggi aurorali, semiogeneticamente vicini alla fonte del sentimento religioso e del suo percepire. Non si ha il coraggio di dichiarare la religione come scienza fenomenologica del sacro, come la capacità metacomunicativa di un popolo di organizzare un linguaggio complesso intorno al sacro, attraverso l’idea di culto. Della coltivazione memoriale di una esperienza. Ricorda G. Scholem, il grande storico della Tradizione orale, della Mistica ebraica, della Qaballah ebraica: “Ciò che mi affascinò allora, la forza di una tradizione plurimillenaria, era abbastanza forte da determinare la mia vita e da indurmi a passare, da una dedizione a questa tradizione nello studio e dell’apprendimento, a un’attività di ricerca e riflessione con cui sprofondarmi in essa. Ma proprio da queste profondità emerse una nuova immagine, viva e decisiva per me, di questa tradizione,tanto che stento a ricostruire l’intuizione originaria che ne ebbi. Ciò che allora credevo di poter cogliere e afferrare e su cui ho riempito alcuni quaderni della mia giovinezza, si trasformò in questo atto di apprensione e il concetto a cui tendevo divenne qualcosa che riluttava tanto più energicamente ai concetti, man mano che passavano gli anni poiché liberava una vita misteriosa di cui dovevo riconoscere l’impossibilità di essere tradotta in concetti, e appariva tale da poter essere soltanto rappresentata sotto forma di simboli” (38).
È come se fossimo abituati a veder scorrere un fiume e non sapere da dove nasce. Sarebbe un atto di percezione religiosa, fascinosa dunque quello per cui la sensibilità umana, nell’atto della conoscenza, di guardar bene la cosa così com’è, attiva una percezione, un campo di esperienza fenomenologica che induce la mente a cogliere la verità che la realtà gli pone, come suggerimento di un altrove, non come luogo generico, ma come abitazione del suo essere reale, cioè il simbolo. Il valore simbolico di un Luogo Comune. Così come aveva intuito Heidegger in “Cosa significa pensare” quando parla dell’esperienza dell’albero che appare all’improvviso alla vista e quando più generalmente intuisce il livello depositario, testimoniale della parola come esperienza della verità stessa. Questa indagine che è già chiara nell’opera maggiore di Heidegger “Essere e tempo”, viene ripresa come fonte originale in Hegel, in un suo lavoro sul maestro di Jena, dal titolo significativo di “Il concetto hegeliano di esperienza” in Sentieri interrotti (Holzwege):
“L’essere presso di noi appartiene all’assolutezza dell’Assoluto. Senza questo essere presente, questo essere presso di noi, l’Assoluto sarebbe il solitario impossibilitato ad apparire nell’apparente. Esso non potrebbe schiudersi nel suo essere non-essere-nascosto. Senza questo schiudersi (physis) esso non sarebbe in vita (Zoè)…La parusia (cioè l’essere presso di noi dell’essere) dell’Assoluto si storicizza come fenomenologia) (39). Così in Heidegger:
“Ma la natura dell’oggetto da noi esaminato rende vana questa separazione (dell’oggetto indagine e del soggetto indagante, n.d.a.) e di presupposizione. La coscienza dà in lei stessa la propria misura, e la ricerca sarà perciò una comparizione di sé con se stessa; giacché la distinzione testè fatta cade nella coscienza. Essa è in lei per un altro, ossia ha in lei in generale la determinatezza del momento del sapere; in pari tempo questo altro è a noi nel soltanto per lei, ma è anche oltre questo rapporto o in sé (an sich): il momento della verità” (40).Così chiaramente Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Questo essere presente dell’essere a noi, la sua parusìa, deve anche esser visto oltre che come apparizione del suo esserci, anche come sua presentazione, manifestazione, in modo da esser visto non solo come rappresentazione, ma come immagine del mondo: “Questa oggettivazione dell’ente si compie in un rappresentare, in un porre-innanzi (vor-stellen) che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo conoscente possa esser sicuro, certo, dell’ente”. E questo costituisce l’immagine dell’ente e l’immagine del mondo: “Immagine non significa qui qualcosa come imitazione, ma ciò che è implicito nell’espressione: avere un’idea fissa di qualcosa. Il che significa: la cosa sta così come noi la vediamo. Avere un’idea, un’immagine di qualcosa significa: porre innanzi a sé l’ente stesso così come viene a costituirsi per noi… Immagine del mondo, in senso essenziale, significa non una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine” (41). Che questo rappresentare il mondo e se stessi, sia all’origine dei linguaggi metaforici da subito presso l’Homo sapiens, all’alba della civiltà umana, la dice lunga sulla capacità espressiva degli uomini nel loro stato nascente, sulla loro naturale vocazione all’ordine concettuale e simbolico: “Con queste figure si doveva esprimere un linguaggio vero e proprio, poiché vi sono elementi ripetitivi molto diffusi che dovevano essere leggibili in tutti i luoghi dove sono stati istoriati. Al di là dei caratteri specifici locali, nei ripari sotto la roccia della Tanzania, nelle grotte ornate paleolitiche della Francia e della Spagna, nell’arte dei cacciatori su pareti dell’Australia o della Patagonia si scoprono le tracce di questo linguaggio che ha le sue radici nei prototipi. È un linguaggio universale che riflette una concettualità universale e che usa dovunque lo stesso sistema di associazione e di logica” (42). Siamo dunque nel campo della semiosfera, nella sfera dei segni che non solo rappresentano la sua immagine ma che la costituiscono, costituiscono la sua abitazione, il luogo astratto dell’esserci. È il linguaggio stesso che parla, essendo il linguaggio la sua dimora che è un dire originario, che ci parla della sua origine. O come lapidariamente dice H.G. Gadamer: “L’essere che può venire compreso è il linguaggio”.
“La parola appunto; c’è un’esperienza comune dell’incontro con una potenza che ci condiziona e ci soverchia, e tuttavia può essere da noi contaminata a sua volta: è l’esperienza del linguaggio. Esso ci arriva già dato; è una potenza sociale che ci assume prima di essere assunta da noi; né sappiamo decidere quanto dei nostri pensieri sia già preformato dal linguaggio o quanto sia esso un nostro strumento” (43).Così traduce Stefano Levi della Torre questa interrelazione tra dato, dichten poetico della parola come excursus e l’azione, l’agire poetico proprio del parlante. Noi siamo vivente che parla e parlante che vive. Le due cose, le due cosalità, s’incrociano come fa il punto con la maglia, mentre parliamo costruiamo la nostra vita e mentre viviamo costruiamo i nostri simboli linguistici e di pensiero. Dunque il farsi voce della voce ci indica il cammino di quel diciamo, di chi chiama e di chi ascolta, in una interrelazione di punti cognitivi che costruisce la geografia del nostro territorio. Semiotico, di e da per l’altro. La nostra vita è essenzialmente una tessitura di trame simboliche. Questo linguaggio tra colui che parla e colui che ascolta è l’esperienza significativa dell’umano e del divino, dell’esserci e del non esserci, della presenza e dell’assenza, della parola e del silenzio, della parola e le cose; è l’intermezzo, il “tra d’unione” che compone il linguaggio come mediazione comunicativa con l’altrui altro: “Solo la parola ci mette in comunicazione con le cose mute. Mentre la natura e gli animali sono sempre già presi in una lingua e pur tacendo, incessantemente parlano e rispondono ai segni, solo l’uomo riesce a interrompere, nella parola, la lingua infinita della natura e a porsi per un attimo di fronte alle mute cose. Sol per l’uomo esiste la rosa indelibata, l’idea della rosa” (44), scrive G. Agamben in Idea della prosa.
E più ancora è una mediance, una mediazione culturale tra una mappa e un territorio, condizione questa espressa molto bene dal filosofo giapponese Watsui Tetsuro nel concetto di fudosei, che in un’opera pubblicata nel 1935, coniò un termine nuovo, fudosei appunto, per dire del legame stretto che c’è tra la formazione culturale dell’individuo e della società con il proprio territorio. Se la storia ci dice del nostro legame temporale, fudosei rende la dimensione spaziale di questo legame (45).
Chiuderei questa parte dell’argomentazione sottolineando che quel “Kan” di: Kanji sai bosatsu sharishi, O Shariputra colui che guarda con mente libera, quello che vede è perfettamente vuoto, ogni fenomeno è puro segno vuoto, le strofe iniziali del Sutra della Perfetta Sapienza, esprime con chiarezza epistemologica senza pari, l’atto di esperienza fenomenica dell’osservatore che ha raggiunto la sapienza, la scienza del saper vedere, al di là di ogni illusione, la realtà fenomenica per quella che è. Il kenbutsu, la visione di un Buddha, del Buddha equivalente alla weltanschauung, lo sguardo dall’alto e di Dio di Romano Guardini più volte da noi citato. Questa giusta visione, è esattamente quel che intende Hegel e poi di seguito Heidegger, come abbiamo visto, e ancor prima, metodologicamente parlando, Cartesio e ancor prima Aristotele, quando l’uno nelle “Meditationes de philosophia prima”, l’altro nella Metafisica, pongono il problema del subiectum, della coscienza del soggetto che pensa la rappresentazione teoretica dell’ente, della realtà degli enti. La metafisica come sguardo rappresentante il mondo, come visione del mondo, come weltanschauung, è obiettivamente, (al di là del diverso modo di dire questa cosa, cioè la verità degli enti, il loro essere realmente presenti), è ciò di cui parlano le filosofie della conoscenza, le più consapevoli della tradizione occidentale, e della tradizione orientale. Questa esperienza che Hegel chiama dell’autocoscienza cosciente, la teoria della conoscenza buddhista, la definisce come esperienza del campo fenomenico del Buddha, di colui che nella grazia del Satori, vede al di là della falsa rappresentazione del samsàra, il mondo così com’è. Ma per vedere le cose come sono, occorre uno sguardo, un saper vedere che sia epistemologicamente molto attrezzato, che sia esso stesso un fundamentum, un grund, una epi-steme, una stabilità certa; è il theorein con cui Aristotele inaugura sistematicamente i suoi pensieri sull’essere, un theorein in cui non c’è discussione su ciò che intende il filosofo della scuola peripatetica: guardare, osservare (oreo, orao) chiara-mente, (theios), lucidamente, con mente divina come se si guardasse dall’alto in quanto in oreo, c’è anche oros, altitudine: “… theorei to on è on kai ta touto uparkonta kat’autò… essa, la filosofia considera ciò che è nel suo essere e considera così ciò che in questo essere già per suo conto predomina” (46). Dunque teo-orein, la speculazione attenta, vigile, prende il posto della prote philosofia, la prima filosofia che discuteva, speculava sulle cose divine inutilmente; guardava, ragionava, legein epi teion, ragionava sul cielo, sul divino, sul luminoso, cercava di leggere, scrutare il divino. Erano dunque teologoi, non teoretoi epistemologoi, filosofi della conoscenza. La natura in quanto realizzazione, non era presa in considerazione se non nella sua costituzione immaginaria. In questa è la modernità della scienza diversamente dalla antichità teosofica, secondo Aristotele. Non guardava, l’antica filosofia, da sopra in sotto, ma dal basso in alto, guardava le cause ma non gli effetti (ex-factum) e drammaticamente non ne coglieva i nessi. C’è dunque in Aristotele, come per Gautama Siddharta, una rottura epistemologica, paradigmatica enorme, rivoluzionaria della tradizione. Si tratta dunque di guardare attentamente il mondo della natura, delle cose ordinate, – del Dharma per la tradizione indiana e del Logos, del Legame, della Legge che regola l’ordine del mondo per i Greci -, come luogo della realizzazione dell’opera, in modo da avere una visione certa dei dati della conoscenza attraverso una esperienza (ex-peira), una ricognizione sul confine, sui limiti dell’orizzonte di ciò che si fa, diviene dall’esperienza stessa come apparenza fenomenica (gwar, verum, wahrheit) (47a). L’uso della metafora ottica in Aristotele è fondamentale come sottolinea C. Augusto Viano nella sua splendida Introduzione alla Metafisica, nella edizione della Utet (47b). È solo una questione di intuizione filosofica, interrogativa, dubbia nel suo essere inerente alla percezione fenomenica, oppure questa intuizione corrisponde ad una visione scientifica della percezione da parte del corpo di sé e del non sé, di sé come corpo di appartenenza e del corpo che non è il proprio? In che senso agisce biologicamente questo meccanismo? Le neuroscienze s’incaricano di dare credibilità all’intuizione di Husserl e di Merleau-Ponty sulla fenomenologia della percezione che presuppone la conoscenza del proprio sé per conoscere l’altro da sé: l’intuizione che la percezione dell’altro è in una relazione di simmetria asimmetrica rispetto al sé e al corpo. Che è esattamente il nostro sguardo dentro lo specchio, nella sensazione di smarrimento che quell’altro, l’immagine nello specchio, siamo proprio noi. Scrive Vittorio Gallese, neurobiologo, scopritore dei neuroni specchio: “L’empatia s’intreccia profondamente con la nostra esperienza del corpo proprio, ed è appunto questa esperienza che ci permette di riconoscere gli altri non come corpi fisici dotati di una mente, ma come persone, come noi.” (48).
Questo approccio sistemico alla percezione visiva, come sviluppo della fenomenologia, in particolare della fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, (che è il vero interlocutore filosofico dei neuroscienziati), ha condotto negli anni settanta e ottanta, ad un approccio di correlazione inversa da parte di J. Gibson con la nozione di affordance. L’affordance è la presa che un ambiente specifico fornisce (affords) ad un osservatore, il quale può percepirla poiché egli stesso, adattato a quell’ambiente, ha presa su queste prese. Un’idea che risale come già abbiamo accennato in particolare al concetto di aistesis proprio della estetica semantica dello Stoicismo e di Crisippo in particolare. Ulteriormente sviluppato poi quest’approccio, in modo scientificamente nuovo, da F. Varela e il concetto enaction, azione incorporata, in cui è del tutto evidente che non c’è più nessuna dualità di soggetto conoscente-percipiente e oggetto percepito-conosciuto. Dunque la dinamica dei processi cognitivi esclude informazioni pre-date e pre-relazionate. È l’apparato senso motorio del soggetto a guidare la percezione stessa del mondo. L’espressione “sentire a pelle” non è altro che la sapienza popolare di un evento che è primrio nella costituzione dell’io. L’io pelle familiare e gruppale è stato molto ben definito nel lavoro di Esther Bick, Didier Anzieu e A. Abraham. In altro ambito ed in altro contesto, quello dell’immagine cinematografica, è quello che afferma in una intervista a Tullio Kegich realizzata per la Rai dedicata alla sua opera artistica, Michelangelo Antonioni quando descrive il senso ottico della preparazione della scena, del paesaggio ferrarese in Deserto Rosso, opera premiata con il Leono d’oro al Festival di Venezia nel 1964.
Alfonso Iacono in “L’evento e l’osservatore” ci dà le coordinate storiche ed epistemologiche di questo processo, che è un processo standard della determinazione del processo di interrelazione tra percezione e percepito, tra strutture senzienti e strutture di senso, come reciprocità di un incontro di percezione con un reale, in una serie del tipo: a) il conoscente conosce il conoscibile nella misura in cui il conosciuto si rende disponibile alla conoscenza; b) il conosciuto dispone di una interfaccia riconoscibile al conoscente e risponde come un effetto di una causa. Sintatticamente è espresso questo principio di reciprocità inversa, di correlazione inversa nella transitività del verbo che permette all’oggetto della conoscenza di farsi soggetto in modo non più reversibile. L’espressione: “la mela è mangiata da me”, non è più la stessa cosa di: “io mangio la mela”. È, in un paradosso logico di apprensione, che la mela agisce come se si rendesse disponibile alla prensibilità e al farsi consumare. Oppure ancora più sorprendentemente: “non sono io che bevo l’acqua dal bicchiere, ma è l’acqua nel bicchiere che si lascia bere da me”. L’agire in una relazione di un corpo con altri corpi è esattamente nell’agire ed essere agiti, la cui evidenza è confermata dall’espressione: “la terra dove cammino, è calpestata da me”. La radice indoeuropea di piede, *ped, pod è anche la stessa di pedìa, campo, terreno, di piede, come misura terrestre e di pedestre, attività pedestre, come cinèsi interattiva di un organo col suo appoggio, di sostrato col suo vero subjectum, as-soggetto, la terra. Nella forma greca katà poda elaunein, piede sta per orma, seguire le orme, seguire dappresso. Un dio antico come Poteidon/Poseidon, indica nel suo dominio sacrale, lo scuotimento con il piede della terra e dunque di suscitatore di terremoti. Esempio ancora più inducente se si pensa che il noein, il pensare, il pensiero è collegato dagli antichi greci, al suo organo olfattivo, naso, nel senso di an-nuire, assentire dopo aver percepito. Capire, sentire, percepire a naso, come vaga ma intuitiva percezione della realtà, è certamente da collegare ad un’attività, ad un sapere di tipo indiziario e pre-logico arcaico. Tutta una scienza indiziaria, di indagini preliminari ruota intorno a percezioni intuitive, olfattive, a pelle come si dice, o ad occhio, nell’attività umana del fare quotidiano e no; indispensabile all’attività investigativa inquirente (indagini giudiziarie, perizie autoptiche, diagnosi mediche), estetica (tromp d’oeil, valutazione e attribuzione di un quadro, di un’opera d’arte), quindi attinente alla storia dell’arte, di pregiudizio cognitivo o attuativo come nel caso di misure in architettura, in geometria e in cartografia. J. Dewey scrive in Art as Experience: “Per cogliere le origini dell’esperienza estetica è… necessario ricorrere alla vita animale che sta al di sotto della scala umana… L’animale vitale è pienamente presente, tutto in se stesso, in ogni sua azione: nei suoi sguardi circospetti, nel su fiuto sottile, nell’improvviso drizzarsi delle orecchie. Tutti i sensi sono in ugual misura sul chi vive”. Fino al fino al ‘700 inoltrato, prima cioè dell’introduzione del sistema metrico decimale, le misure per approssimazione sensoriale erano la norma. Il cubito (il gomito), il palmo, il pollice e il piede, sono le misure con cui venivano costruiti persino opere monumentali come Versailles. La Casina Vanvitelliana, residenza estiva dei Borboni eretta nel 1782-89 sul lago Fusaro nei Campi Flegrei ad opera di Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, opera architettonica con dodici lati di una organicità geniale senza pari con un angolo di flessione delle spezzate ortogonali di 45 gr. per ampliare i diedri interni, fu eseguita con dei parametri modulari di proporzionamento calcolati sui palmi napoletani, sul cubito e il palmo napoletano, dunque su misure “locali”. Il modulo di proporzionamento è di 33 palmi napoletani corrispondenti a m. 8,70. Lo stesso com-prendere (prendere cum manu, toccare con mano), deve essere connesso all’attività di un organo, la mano, col suo oggetto fin dall’antichità dell’homo sapiens. Dunque da sempre la comprensione è legata all’attività del facere, del fabrum, del fabbricare, della mani-fattura, come l’etnografia e l’antropologia umana ampiamente attesta. E più in generale questo processo di risposta e accumulo di notizie in riposta ad una domanda della mente con l’ambiente, appartiene a quelle interazioni tra conosciuto e conoscente proprie della Agency Theory della psicologia cognitiva postprocessualismo di Giddens, Bourdieu e Marshall Sahlins (49).
La duttilità, la umilitas degli oggetti, la loro disponibilità a farsi conoscere è resa evidente dall’intuizione in Dogen, che estende la intuizione di Gautama nel Mahaparanirvanasutra (che tutte le cose hanno natura di Buddha: issai no shujo kotogotoku bussho o yusu), ad ogni cosa esistente, non specificamente gli esseri senzienti, ma a tutte le esistenze senzienti e non senzienti: “tutti gli esseri senzienti la natura di Buddha dell’esistenza, issai-sho shitsu-u-bussho”. Che si realizza nell’espressione paradossale: “Vedere la natura di Buddha è osservare una mascella di asino e una bocca di cavallo” e ancora: “…nell’intero universo non c’è neanche un solo oggetto estraneo alla natura di Buddha e non c’è neanche una seconda esistenza che non sia questo universo qui ed ora” (50).
Questa metafisica dell’io, del pensiero autisticamente inteso, che percepisce senza essere percepito, ha prodotto i più grandi equivoci e misfatti nella interpretazione umana della realtà, portando gli uomini sull’abisso ed oltre, dell’infernalità (51). Scrive Alfonso Iacono riprendendo un passo di G.B. Vico del De antiquissima: “Se i sensi sono facoltà, vedendo i colori, gustando i sapori, udendo i suoni, toccando le cose fredde e calde, noi produciamo queste qualità delle cose”. Il riferimento a Vico significa qui il riferimento a colui che pose le basi teoriche per l’ermeneutica storica, della epistemologia semantica in Occidente, poiché la sua concezione del fare e del conoscere la storia è costruita sul senso di auto limitatezza del comprendere umano. La nozione di chiusura porta con sé l’idea che un sistema produce un mondo e dà senso ad esso. Nel conoscere questo sistema crea eventi, poiché interviene attivamente. Nel dare senso aggiunge il nuovo al già dato… Il rendere simile a sé l’altro è un processo di attività conoscitiva. Ecco perché noi possiamo osservare l’osservatore o intepretare l’inteprete. Tutto dipende dal fatto che è l’insieme dell’oggetto e del mondo prodotto dall’osservatore che noi osserviamo” (52). Nel paradosso della freccia di zenoniana memoria in realtà si pone il paradosso logico di un sistema e cioè: quando la freccia è scoccata, chi è che scocca? L’arco, l’arciere o la freccia? E quando una volta è scoccata cosa avviene in ogni segmento spazio-temporale? Chi osserva e chi è osservato sono dentro un contesto normativo e in questo quadro cosa avviene? Rispondere a queste domande, non solo appartiene alla storia della filosofia della conoscenza, ma questo è in oltre il nucleo fondamentale della ricerca estetica teologica e rituale, questa affermazione della parola testimoniale, di un gesto visibile che significa il quello e quello che è oltre il quello: l’immagine e la sua somiglianza. È il valore simbolico del reale (53).
Questo afferma von Balthazar, questa percezione della realtà come segno e come forma è in realtà la percezione della Grazia attraverso la bellezza del mondo: il richiamo continuo al mondo come rappresentazione e come volontà dell’Essere di esserci, l’ ”io sono colui che sono accanto a voi”, della testimonianza Mosaica del significato del Nome di Dio (54). E aggiungo io, politica, cioè la fondazione di una comunità che esprime e testimonia della fede stessa. Col Buddha e con il Cristo, con Dio che ordina a Mosè l’esperienza politica, di istituire e leggi e i tribunali, nella tradizione giuridica e filosofica islamica, nel suo essere islamic nation, nazione islamica senza confini territoriali, noi affermiamo che l’esperienza della percezione estetica del divino, viene tradotta in una ritualità politica, comunitaria; nella Istituzione e nel Diritto e nei linguaggi semiogenetici ad essi connessi. In quell’ordine cosmico e naturale,il Dharma, che chiamiamo nell’antico protoindoeuropeo, (d)Hrto > (d)Hrta. Dritto e rovescio, ordine naturale, trama, tessuto, ordine di un incrocio tra corpo e mente, ordito tra assi simbolici differenti, l’asse del costituito e l’asse dell’incostituito, il dha* farsi. Il Dha di Dharma, il terreno, il fondamentale come ground, l’umano che si realizza è forse il Tao, il metà-odos, il cammino che si realizza come destino, destinazione umana? Probabilmente sì, se recuperiamo il terreno dinamico della etimologia e del significato profondo (55).
Ordito, costituzione, trama politica e religiosa di una molteplicità che si trasforma in politica universale. Nella Comunità, nella Comunione dello Spirito, nell’Assemblea dei chiamati. In ciò che san Paolo chiama la comunità dei santi: “Mai più meteci né stranieri ma confratelli e concittadini della Cominità dei santi”. Alain Badiou sottolinea il carattere universalistico della visone di san Paolo che ricolloca l’ebraismo in un ambito universale che lo delocalizza, lo deterritorializza, per farne manifesto politico della universalità del genere umano, planetario e in qualche modo comunistico nella universalità della grazia. In una esperienza teologica e politica, fondativa del Sangha, della Comunità, in quanto comunità che sceglie il proprio Luogo comune. In uno dei sui ultimi scritti, “Cosmopoliti di tutto il mondo, ancora uno sforzo!”, scritto originariamente per la Costituzione in Europa (1995) delle città-rifugio, Derrida cita il comando, il precetto di Dio a Mosè di istituire, le città, i tribunali, le leggi, l’assemblea del popolo, la casa comune del popolo di Israele e poi ancora le città d’asilo per i criminali e per gli esiliati. E. Levinas alle città-rifugio ha dedicato una intensa meditazione. Così come Hanna Arent e Walter Benjamin si sono spesi politicamente per uno stato non totalitario, richiamandosi allo statuto d’eccezione della legge. San Paolo coglie molto bene l’universalità del Massiah divino. Ogni uomo, nella sua universalità, nella morte del Cristo , è salvato perché rinasce nello spirito. La morte dunque, il vuoto assoluto di ogni esperienza umana, la sua Kènosi, è in realtà quella porta stretta che tutti devono attraversare. La non identità del sé, è la via attraverso cui noi apparteniamo, attraverso la morte, la dissoluzione identitaria ed oggettiva delle cose, al mondo intero, alla Koinè universale. Questo aspetto, l’aspetto kenotico della fede è tra l’altro un punto di snodo fondamentale per costruire una somiglianza teologica fondamentale tra Cristianesimo e Buddhismo, tra la morte del Cristo e il Nirvana del Buddha, che sono gli aspetti transeunti del divino nell’umano, tra annichilimento del Cristo sulla Croce per assimilazione terrena, umana e l’aspetto kenotico della fede buddhista, del suo credere allo svuotamento, alla vuotezza di ogni Dharma. E paradossalmente, si lega a quel avel avalim, il vuoto di ogni vuoto, messo lì come drastico ammonimento dello Spirito di Dio nella sua sostanza indefinita ed aleatoria, come chiodo nella trave cosmica, nella tradizione legittima ebraica, nel libro sacro del Qohèlet (56).
Simbolicamente dunque i sistemi di religione, iniziano alla nostra identità collettiva, comunitaria, non individuale. È attraverso la morte che il corpo risorge nello spirito. L’apostolo delle genti coglie molto bene che la Kènosi del Cristo, la sua scomparsa, la sua morte, il suo svuotamento, è il lascito fondativo, memoriale della Religione dello Spirito: “Ignorate forse che quanti siamo stati battezzati in Cristo, siamo stati battezzati nella sua morte?” e ancora: “Se infatti siamo stati connaturati con Lui nella somiglianza della morte, lo saremo pure nella somiglianza della Resurrezione” (57).
“In verità ti dico che se uno non è nato di acqua e di spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è spirito è spirito. Dovete rinascere nello Spirito comune poiché già siete nati nella carne (58)”. Così risponde il Cristo a Nicodemo che non capisce la novità del messaggio del Cristo stesso. È – nella dottrina del Buddha -, la realizzazione della fede, il Risveglio, la realizzazione della sua mente, la Bodaishin, la mente del Risveglio, come il corpo risorto, rinato, guarito, che sorge a nuova vita, a nuova dimensione. Diviene Buddha realizzando la natura intrinseca di ogni Buddha. È dunque questo il senso, l’annuncio del Buddha nuovo, il suo kerigma? il suo avvenire, il suo Angelus Novus? Se fosse così, sarebbe davvero commovente; la coscienza del Nirvana, nella corrente del samsara, sarebbe la profezia della Grazia donata agli uomini, nel regno del suo spirito, il Dharma realizzato nello Spirito a tutti comune:
“Figli di nobile schiatta, io consegno, pongo nelle vostre mani questo perfetto supremo Risveglio da me raggiunto. Che si moltiplichi e si diffonda” (59). Ma la grazia cos’è e appartiene all’uomo o è di disputa divina? La consegna dell’annuncio salvifico è lo specifico dell’atto religioso. Senza questo Annuncio, del suo stesso angelo, la notizia dell’Evento non avrebbe significato. Dunque come la freccia che viene scoccata, la parola annunciante, l’annuncio, colui che annuncia e il contenuto dell’annuncio, la memoria testuale, cultuale dell’evento annunciato, sono gli elementi della struttura di senso di un sistema religioso. Ma questo annuncio, come in Kafka, non ammette indugi: “Ordinai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi capì. Andai io stesso nella stalla, sellai il mio cavallo e vi montai. In lontananza sentii il suono di una tromba, chiesi al servo che cosa volesse dire. Egli non lo sapeva e non aveva sentito niente. Presso il portone mi trattenne e domandò: “Signore, dove vai?”. “Non lo so, – dissi -, solo via di qui, solo via di qui” (60).
In una fuga senza fine dentro ed oltre l’abisso del tempo, come attraversando il deserto, questa è l’esperienza del sacro che induce alla conoscenza dell’altro e del mondo dell’altrui come al mondo di un unico, differente, universo simbolico. Per la matematica e per la fisica sarebbe nient’altro che una curva esponenziale di accrescimento (61).
Note
1) Taisen Deshimaru. Il vero Zen, pag.47.SE ed in “I due pilastri della religiosità del pensiero del Maestro Dogen”. Kusen di Taisen Deshimaru. Ist. Ital. Zen Soto; F.Taiten Guareschi in una nota pag.2 dell’Introduzione al suo: F.Taiten Guareschi.Il pensiero religioso di Taisen Deshimatu Roshi. Il Cerchio edizioni,con estrema chiarezza scrive:”Sunyata. Vacuità, vastità,vuoto. Deriva dal sanscrito sunya(zero). E’ la dottrina fondamentale di tutta la filosofia Mahayana , particolarmente dello Zen, a partire da Nagarjuna. E’ la perfetta non dualità che è vuota di tutto,anche dello stesso concetto di vuoto”.
2) Kitaro Nishida.La visione del luogo e la visione religiosa del mondo,pagg.130-138.L’Epos ed.;Per la questione del luogo e del non luogo in filosofia e in filosofia della conoscenza:M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza e la sentenza di Nietzsche “Dio è morto” in: Sentieri Interrotti. La Nuova Italia; Ritorno al fondamento della Metafisica, in: Che cos’è la metafisica”? La nuova Italia; H .G. Gadamer, il Sentiero verso la svolta, in :I sentieri di Heidegger. Marietti;M.Foucault.Eterotipia.Luoghi e non luohi metropolitani.Mimesis; Marc Augè: Nonluoghi,introd.ad una antropologia della surmodernità.Eleuthera e Il Troppo pieno e il vuoto, in Rovine e macerie. Bollati Boringhieri; V. Vitiello.Topologia del moderno. Marietti; Raffaele Milani.Visioni estatiche in: I volti della grazia. Il Mulino;J. Y. Lacoste.Esperienza e assoluto. Cittadella; e infine R. Thom: Stabilità strutturale e morfogenesi. Einaudi; C.Mangione: La logica nel ventesimo secolo,in L.Geymonat. Storia del pensiero scientifico e filosofico. Garzanti
3) K.Tsujimura. Il pensiero di Martin Heidegger e la filosofia giapponese,in “Sophia”,n1.1999; M.Heidegger. Cosa significa pensare, pag.59 e seg.Milano.
4) T.Deshimaru Kusen, op.cit.
5) Vasta è la schiera dei critici radicali alla filosofia del fondamento e va da Heidegger, a Gadamer, da Popper, a Feyrabend, a Derrida, a Deleuze, a Rorty. Per rendersi conto della problematicità, consigliamo:A.Pagnini. Teoria della conoscenza,in La filosofia,vol III, a cura di Paolo Rossi. Utet; P.Rorty. La filosofia e lo specchio della natura. Bompiani; H. Albert. Per un razionalismo critico. Il Mulino; G.Vattimo. La fine della modernità. Garzanti; E. Severino. Oltrepassamento. Adelphi;H.Jonas.Questioni relative ai fondamenti e al metodo, in Il principio di responsabilità.Einaudi.
(6) M. Heidegger. Che cosa è la Metafisica? Adelphi e E. Severino. L’essenza del nichilismo. Adelphi. E.Severino. La tendenza fondamentale del nostro tempo. Adelphi; A.A.V.V.Scienza e realtà, a cura di G.Peruzzi.Bruno Mondadori.
7) Dogen Zenji. Shobogenzo, Bussho e Maka.kannaharamitsu. Lo Shobogenzo (Il tesoro della vera visione del Dharma) è l’opera fondamentale del maestro fondatore dell’Ordine Zen Soto, Dogen Zenji(1200-1253).Ottimo lo studio sistematico di Hee-Jim Kim “Eiehi Dogen Mystical realist, edito da Wisdom Pubblication,USA e tradotto in Italiano a cura dell’Istituto italiano Zen Soto, Salsomaggiore. Per lo studio del Buddismo Zen in generale invece: Heinrich Dumoulin, A History of Zen Buddhism. Per il Buddismo Zen Soto è consigliabile:Koho Chisan Zenji, Le bouddisme Zen Soto, ed. Sully, Vannes. Esiste anche una traduzione in Italiano a cura dell’Istituto Italiano Zen Soto, Salsomaggiore e Taisen Deshimaru.Il vero zen. SE ed.
8) Per capire la portata di quanto si afferma, non resta che immergersi nell’opera di E.Husserl, ampiamente tradotto in Italia. Per chi volesse,rimane fondamentale l’ampio studio su Die Krisis der eurpopaischen Wisseschaften und die transzendentale Phanomenologie, in Husserliana, Amburg e Erfahrung und Urteil,Esperienza e giudizio in Opere; La stoà di M.Pholenz, la Nuova Italia. Più in generale: Anthony A. Long. La filosofia ellenistica, il paragrafo dedicato allo stoicismo, pag 145 e seg. Il Mulino. Ma già Parmenide affermava che il pensiero e la percezione (to aistanestai kai to fronein) erano identici.(M. Untersteiner in I presocratici e in Sofocle); e per uno studio sulla fenomenologia: C.Sini. Fenomenologia. Garzanti; Enzo Paci. Filosofia e fenomenologia della cultura,in Relazioni e significati. Lampugnani.
9) G.B.Vico.Scienza Nuova. Idea dell’opera,.in G.B. Vico. Opere, vol II. Fulvio Rossi ed. L’ampia nota di Nicola Badaloni nel suo studio su Vico(Introduzione a Vico,Laterza) a pag.26 rende conto di quanto si dice:”essendo la nostra mente partecipe del principio attivo delle cose(il facere), un serio discorso sulla metodologia del Vico non può farsi che tenendo conto sia delle sottostante base attiva sia della risposta, in termini di arte topica e di linguaggio, che la mente è in grado di sviluppare. Anzichè un blocco monolitico e unidirezionale tra natura e scienze umane, la causalità vichiana deve essere intesa come capacità di pensare la variazione dei contesti e di esprimerla in modo simbolicamente appropriato”.
10) In Sutra Zen,a cura dell’Istituto Italiano Zen Soto, Salsomaggiore.
11) “La mente del risveglio non è natura propria né natura altrui, non è natura comune o la natura senza causa. Nonostante ciò , il sorgere del pensiero dell’illuminazione accade, quando la risonanza cosmica è presente (kanno-doko).” Dogen in Hotsu-Bodaishin e in Kim“Dogen mystical realist”,pag176.
12) Tommaso D’Aquino. De ente et essentia. Dell’ente e dell’essenza, pag 121-139 e 147-149.Sei.Torino e L’incarnazione, in Somma Teologica,terza parte, qq.1-26.Salani.Firenze
13) Genesi,1.26.1.27:” e Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. A immagine di Dio li creò. Maschio e femmina li creò”.Sul senso dell’espressione il Genesi rabbah, la raccolta delle interpretazioni del Genesi,e il Midras Thillin, una raccolta di interpretazioni (midras al plurale midrashim,vale insegnamento) redatta in età altomedievale danno questa interpretazione:” A nostra immagine, secondo la nostra somiglianza e cioè non l’uomo senza donna né la donna senza l’uomo e neppure entrambi senza la Sekinah ,(la presenza- impresente come l’ombra, di Dio), afferma rabbi Simila’y”.Genesi rabbah VIII.9. Nel Misdras Tehillim invece :”Quando un uomo traccia una figura su di un muro, questa non ne produce un’altra;l’uomo invece è la figura del Santo,sia Egli benedetto e anche l’uomo genera figli a propria immagine, come è detto Adamo generò un figlio a sua immagine e somiglianza(Gen.5-3)”.Midras Tehillim CXVII.I
14) a. Così si esprime Anne Cheng a questo proposito:”In effetti è nello spirito assoluto che si integrano armoniosamente tutti gli elementi del mondo noumenico puro della buddhità come del mondo fenomenico impuro,segnato dalla molteplicità e dall’infinita varietà delle cose. Di conseguenza la scuola Tiantai pone l’accento sulla coltivazione dello spirito tramite la cessazione-concentrazione (zhi) che porta a prendere coscienza della vacuità di ogni cosa e la visualizzazione (guan, giapponese kan) che al di là della vacuità, percepisce le cose nella loro realtà temporanea”. Anne Cheng. Storia del pensiero cinese. vol. II pag.415. Einaudi.
Il kanji, l’ideogramma equivalente di guan è un omino che guarda attentamente qualcosa davanti e sotto di lui. Il saper guardare dentro e oltre la realtà, questo è l’aspetto propriamente profetico del pensiero.(Lo sciamanesimo e il Sacro e il profano di. M.Eliade; inoltre in Fenomenologia della religione di G.van der Leeuw).In Sanscrito è il bodhisatva Avalokitesvara detto avalokita,colui che guarda dal’alto verso il basso,che contraddistingue una compassione ma anche la sua grande sapienza dall’alto, esattamente ciò che R. Guardini intende per weltanschauung contrapposta ad anschauung, sguardo divino e sguardo terreno: ”Mosso da compassione Avalokita, senza perdere di vista la vacuità,guardò in giù dall’alto questo mondo di creature sofferenti” così in Ed. Conze nel commento alla traduzione dal sanscrito del Sutra del Cuore. In “ I libri buddhisti della sapienza”,pag 71.Ubaldini.
b. Bodhisatva vuol dire:essere risvegliato. Nella tradizione del Grande veicolo,il Mahayana, la figura del bodhisatva è molto importante, è colui il quale,perfettamente risvegliato,sceglie di vivere in mezzo agli uomini per aiutarli a realizzare a loro volta il Risveglio.(K.Mizuno, Essentials of buddhism. Basic terminology and concept of buddist philosophy and practice. Kosei Pubblishing Co. Tokyo.Nel Sutra del Diamante ai capitoli dal 3 al 5 è trattata la figura e il percorso di un bodhisatva;vedi anche :G.Filoramo. Dizionario delle Religioni, alla voce bodhisatva. Einaudi e Har Dayal.The bodhisatva Doctrine in Buddhist Sanskrit Literature. Trubner & comp.London
15) G.Busi alla voce masiah, op. cit. e Pnina Navè Levinson.Introduzione ala teologia ebraica,pagg.130-135.ed.San Paolo. Per una trattazione completa sul Messianesimo ebraico:David Banon, Il Messianesimo. Giuntina e J.Neusner.I fondamenti del Giudaismo.Giuntina
16) In effetti Il Sutra del Loto è detto anche Sutra del Bodhisatva Kannon, Avalokitesvara in sanscrito, il sutra che più si spinge sul fronte del profetismo e del messianesimo buddhista. P.Williams. Il Buddhismo Mahayana,cap.7,pag165.Ubaldini e F. Sferra nell’Introduzione al Sutra del Loto. Bur
17) “Fu il buddhismo Mahayana che apprestò un fondamento filosofico più consistente alla teoria del Buddha,attraverso la dottrina dei due, dei tre e quattro aspetti o corpi (kaya) del Buddha :il corpo del Dharma (dharma-kaya), il corpo di ricompensa o di godimento (sambhoga-kaya) e il corpo di manifestazione(nirmana-kaya).Si ha fede che il Dharma si sia incarnato nel Buddha”.Così K.Mizuno op.cit.pag.8; la dottrina del corpo di Dharma è trattata nel sutra del Diamante in 2b e 2c del testo a cura di Ed.Conze, op.cit. in nota 13.
18) Il Sutra del Diamante,pagg.60-63 in E. Conze. I Libri buddhisti della Sapienza. Ubaldini Editore
19) E. Cassirer. Storia della filosofia moderna al capitolo:L’Umanesimo e la contesa tra filosofia platonica e aristotelica,pag.96 e seg. New Compton.Per un’accurata trattazione dell’argomento,vedi poi:Cesare Vasoli. La rilettura di Aristotele e Platone,in La cultura Civile pagg.45-65.Utet;Per la visione del pensiero ebraico e cabalistico al riguardo vedi:Benedetto Carucci Viterbi. La Qabbalah, in Torah e filosofia,percorsi del pensiero ebraico. Giuntina. In particolare nello Zohar, il Libro dello Splendore, attribuito da G. Scholem, il più grande studioso della Qabbalah del Novecento,a Mosè de Leon,cabalista di Vallodid della fine del XIII sec.,si pone lo scopo di cogliere la dimensione nascosta dei processi divini come rispecchiamento della creazione. Per la cultura islamica:B.Scarcia Amoretti. Maometto e l’Islam. Salerno ed.; R.Tottoli. I profeti biblici nella tradizione islamica. Paideia.;H. Corbin. Le paradoxe du monoteisme.L’Herne; in particolare T.Fahd. La naissance du monde en Islam in La naissance du monde,pagg.250-55.Le Seuil. E Y.Tardan-Masquelier. I Miti della Creazione,La nascita del mondo secondo l’Islam, parag..6, pagg.325-326 in La Religione. Utet
20) F.Taiten Guareschi.Capaci di missione attiva,pagg.7 e 8. La voce che ascolta. Istituto Italiano zen Soto. Salsomaggiore.
21) Dogen Zenji.Shobogenzo, Esistenza-tempo(uji),pag.38-39.Mondadori
22) Anne Cheng.Storia del pensiero cinese, vol. II.pag.415 § 3.La scuola Huayan.
23) “I cinque aggregati sono costituiti da elementi psicofisici:forma(rupa),sensazione(vedana), percezione(samjna),fattori mentali(samskara) e coscienza(vijnana).Complessivamente sono chiamati nama(nome) e rupa(forma).Il composto nama-rupa è quindi un sinonimo dei cinque aggregati”. K.Mizuno, op.citata in “Elementi dell’esistenza”quaderno n.3, pag.4, a cura dell’Istituto Italiano Zen Soto, Salsomaggiore.
24) Dogen Zenji, vedi nota 18.
25) Il canone Buddhista,2 vol. Utet
26) Il Sutra del Loto. Capitolo V,51 e 79. BUR
27) Sono stato molto in dubbio se scrivere quanto sopra e questa nota, consapevole dell’”arditezza” di questa supposizione e perché il tema della scienza e della filosofia buddhista, ha subito in questi anni il fascino della cultura olistica,che a mio avviso significa tutto e non significa nulla. Resta il fatto che nelle intuizione di Heisenberg, Schrodinger, D.Bohm, Mandelbrot, Bateson e Prigogine, E. Del Giudice e Preparata, fino alle recenti acquisizioni di Varela,e soprattutto di Vittorio Gallese per le neuroscienze, di A. Piazza per la genetica evoluzionista, G.M. Cardona,R. Rappaport e A.Salza per etnolinguistica, ci sono argomenti logici, semantici e di biosemiosfera, da sviluppare per un serio incontro tra scienza e pensiero del non pensiero buddhista. Certamente in Dogen in particolare non v’è alcuna intenzione di analisi epistemologica del reale, in quanto il suo pensiero è un pensiero religioso. Ma di certo il suo pensiero giunge a tali livelli di complessità che di fatto induce chi legge a vari ordini di considerazioni: di logica, di epistemologia e storia delle scienze. Per questo rimandiamo l’ardito parallelismo allo studio di Dogen e in particolare allo studio di Abe Masao:La concezione dello spazio e del tempo in Dogen. Istituto italiano Zen Soto; e per le questioni logiche e scientifiche al volume di Mauro Dorato. Il software dell’universo. Mondadori in particolare da pag.68 a pag.80 ; A. Pagnini: Filosofia della conoscenza. della conoscenza, op.cit;D.Sciama.The Physical Foundations of General relativity, Science Study Series, Modern Cosmology, Cambridge, Cambridge University Press.
28) W.Benjamin. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Metafisica della gioventù, pag.186. Einaudi. La questione in W.Benjamin è di grande complessità, e riguardano i suoi legami con G. Scholem e con altri pensatori ebrei e non ebrei a lui contemporanei. Va dunque inquadrata nella particolare Bildung dell’epoca e del pensiero ebraico in Germania nel primo Novecento per cui è doveroso rimandare il lettore a: F.G. Friedmann. Da Cohen a Benjamin. Giuntina e alla ottima prefazione di Carlo Attini: Oltre il Nichilismo, al volume su:Leo Strauss. Filosofia e Legge. Giuntina; al volume Filosofia e ebraismo da Spinoza a Levinas a cura di K.Tenenbaum e P.Vinci. Giuntina. Franz Rosenzweig. Ebraismo, Bildung e filosofia della vita. Giuntina
29) R. Guardini. Scritti Filosofici,pag.201, vol.II. Fabbri ed.; A.Grillo. La riscopetta del rito come dato della teologia. Il contributo dell’antropologia per la comprensione del’esperienza religiosa.pagg7-14.op.cit..
30) C.Watkins. Le dorsali,in Proto-indoeuropeo; E.Vineis, Le consonanti occlusive>i.e. k,pag 305, in Latino, in Le lingue indoeuropee. Il Mulino;per il ritualismo religioso inerente alla voce,vedi A. Degrace. Dalla Religione vedica alle Upanishad, in La Religione vol III. Utet
31) M.Merleau-Ponty. L’occhio e lo spirito,pag.18.SE
32) Henry Corbin. Corpo spirituale e terra celeste, pag.118. Adelphi.
33) R. Guardini. Fede, religione, esperienza, pag.146. Morcelliana
34) Agostino di Ippona. Confessioni. X, xxxv, pag.54.Utet
35) G. Raimondo Cardona. La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, pag 7.Laterza.
36) a) kerigma è parola greca per annuncio,bando pubblico,editto. Nel Nuovo testamento viene adoperato da Matteo come predicazione del Cristo(Mt.12-41).Ma del Kerigma, dell’Annuncio di una verità escatologica,è fondamentale la notazione costante in Paolo, come avvento della chiesa dello spirito e della comunità dei santi in Cristo. L’aspetto annunciante, autoritativo della religione che annuncia l’evento fondante, si estende generalmente alle religioni storiche. Per la questione vedi:P.A.Sequeri.Il Dio affidabile.Saggio di teologia fondamentale.Queriniana.;H.Schlier. Kérygma e sophia in Il tempo della chiesa. Il Mulino; R.Bultmann. Credere e comprendere. Queriniana; W.Benjamin. Angelus Novus. Einaudi; G.Scholem. Walter .Benjamin e il suo angelo.Adelphi; F.Rosenzweig. La stella della redenzione. Marietti; K. Lowith. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia. Ed. di Comunità. Per il kerygma, come parola annunciante nel cristianesimo, nell’ebraismo filosofico e nella ierofania del Buddha, vedi:Vincenzo Crosio.Il kerigma,l’annuncio della parola che cambia il paradigma,in Zenite,zen notizario.vol.16,n.3-autunno 2009 e riportato qui, in questo testo; b). per wauca,vox, voce,aoga,parlo chiaramente,con solennità,vedi alla voce A.Thumb, Handbuch des Sanskrit.Winter.;C.Watkins.Il proto-indoeuropeo.pag.56,in Le lingue indoeuropee.Il Mulino.;E.Benveniste.Le istituzioni indoeuropee,alla voce >voto,pagg.460-461,op.cit. e alla voce>fas,pagg.384-391,op.cit; c) Per Shoshoni,Sioux e Dogon, A.Salza in Modelli di rappresentazione pag.7.Atlante delle popolazioni. Utet
37) G.R. Cardona. La foresta di piume. In “I nomi delle cose”,pag.129. Laterza;Omero,Iliade,libro II.
38) G.Scholem.Da Berlino a Gerusalemme,pagg.47-47.Einaudi
39) M.Heidegger. Sentieri interrotti. Il concetto hegeliano di esperienza,pagg.185-186.La nuova Italia.
40) G.W.F.Hegel. Fenomenologia dello Spirito. pag.76.La Nuova Italia.
41) M.Heidegger. L’epoca dell’immagine del mondo,pag83 e pag.86-87, in Sentieri interrotti. La Nuova Italia
42) E.Annati.I linguaggi metaforici,in Le religioni preistoriche,pag.43.La Religione,vol I.Utet
43) Stefano Levi della Torre. Zone di turbolenza,pag.23.Feltrinelli.
44) G.Agamben. Idea del linguaggio,pag.87,in Idea della prosa. Feltrinelli
45) Watsuji Tetsuro.Fudò.Ningengakuteki kosatsu.Tokio.Iwanami Shoten,1935; trad.inglese:Climate and Culture.A philosophical Study.N.Y.Greenwood Press,1988.
46) Aristotele.Metafisica.Z1,1003 a21. Jager W.W. Oxford
47a) -J.Pakorny. Indogermanisches etymologisches Worterbuch.Berna; 47b) -Augusto Viano. Aristotele, Metafisica. Introduzione pagg.11-14.Utet
48) V.Gallese. Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività,pag.319,in Neurofenomenologia. Bruno Mondadori.
49) a- Per il fonetismo ped/pod vedi P.Chartraine, Il vocabolario etimologico della lingua greca. Parigi così pure per Pedo-seion,Poseidon, scuoti- terra, e E.Benveniste.Il vocabolario delle istit.indoeuropee,op.cit.alla voce>ospitalità; Per l’attribuzione del dominio sacrale di Poseidon Hippios vedi M. Detienne in Puissance du jallissement, pag 145-147.in Il destino della Sibilla.Bibliopolis.b- Per Noein come capacità di sentire empaticamente che ci sia qualcosa attraverso il naso,l’annusare e l’annuire,comprendere che lì ci sia qualcosa, vedi H.G.Gadamer pag.32 di Parmenide.Ripostes, in cui vengono riportate le ricerche di K.von Fritz sul campo semantico di noein, pensare,nous pensiero come riconoscere qualcosa per il suo odore attraverso il naso proprio degli animali,(K.von Fritz,Le orig.della scienza in Grecia,Il Mulino) come in ad-nuo, porto il naso verso, annuso, annusare l‘aria,;e R.B.Onians a pag.166-168 di Le origini del pensiero europeo,in Genius,numen in cui tra l’altro si cita Livio(VII,30) che cita un episodio in cui i messi campani chiesero ai senatori romani di assentire annuendo col cenno del capo,ricordandogli il numen originario:” Annuite,patres conscripti, nutum numenque vestrum invictum Campanis”.;J.Dewey.Art as Experience,pagg.18-19.Capricorn Books;c-Per il sapere indiziario vedi: C.Ginzurg.Spie.Radici di un paradigma indiziario,in Crisi della ragione.Einaudi;J. Bruner J.La fabbrica delle storie, Laterza;P.Ricoeur. Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica. Jaca Book;d-Per le misure non decimali vedi Le misure nella scienza,nella tecnica,nella società, manuale di metrologia, a cura di S.Sartori.Paravia e L.Geymonat ,Storia del pensiero scientifico e filosofico.Einaudi;per le notizie sulla Casina Vanvitelliana del Fusaro:Fusaro,storia, cultura,arte.pag.21-28.Eliopolis.e-Per il rapporto tra sviluppo cognitivo del’Homo sapiens e la sua attitudine alla manifattura,il suo embodiement, l’ingaggio del corpo con l’ambiente e con la relazione con gli altri,vedi la splendida Archeologia teoretica: Breve Introduzione,pagg.46-49 diM.Montagnari Korely,in Dalla preistoria alla storia.Il mondo antico.Salerno ed. e A.Salza .Strategie di sopravvivenza,tecnologia , pagg.123-126.Atlante delle popolazioni.Utet;f-Per la Agency Theory,la Theory of pratice e la Strutturation Theory che identificano l’embodiement, il material engagement e le pratiche corporee nella civilizzazione umana:C.Renfrew-P.Bahn.Archeologia,teorie,metodi,pratiche.Zanichelli e I.Hodder, Archaeological theory today, Cambridge; g-Per l’approccio neocognitivo dell’ ”ecologia dello sguardo” vedi:J.Gibson.The ecological approach to visual perception.Boston e F.Varela,E Thompson ed E.Rosch.L’inscription corporelle de l’esprit.Seuil.Paris.;A.Berque.Come parlare di paesaggio? In Estetica e paesaggio, pagg.166-168.Il Mulino.; per l’io pelle familiare e gruppale,D.Anzieu,L’io pelle familiare e gruppale,in Interazioni,Franco Angeli. N.1/96 e P.Lussana in Rivista di Psicanalisi.30,1984;Tullio Kegichz,Michelangelo Antonioni.Intervista.Rai storia.
50) Dogen Zenji.Bussho in Shobogenzo.Pisani ed. e Hee-Jin Kim. Eiehi Dogen realista mistico,pagg.104-108.trad.Massimo Barbaro.Istituto itaiano Zen Soto.Salsomaggiore;Su tutto l‘argomento vedi poi la bellissima discussione di H.Jonas in Il principio di responsabilità, Sugli scopi e la loro posizione nell’essere,pagg 65-97.Einaudi
51) G.Bateson.Verso una teoria della schizofrenia,pagg.244-251, in Verso un’ecologia della mente. Adelphi; P.Watzlawitck.La realtà della realtà,pagg 24-33 e 82-89. Astrolabio; A.Kozybski. Introduzione ai sistemi non aristotelici e semantica generale.Pennsylvania;G.Jervis.Introduzione a La personalità autoritaria 2 vol.Adorno Frenkel-Brunswik Levinson Sanford.Ed.Comunità.
52) A.Iacono.L’evento e l’osservatore.Ricerche sulla storicità dela conoscenza, pag.45.PierLuigi Lubrina ed.
53) U.Eco.Simbolo,in Enciclopedia,vol.XII.Einaudi.;J.Buadrillard,Lo scambio della morte nell’ordine primitivo ,in Lo scambio simbolico e la Morte.Feltrinelli.;Ed.Leach.Cultura e comunicazione. La logica della connessione simbolica.FrancoAngeli; M.Granet-M.Mauss.Il Linguaggio dei sentimenti. Adelphi; I.Hodder.Symbols in action:ethnoarcheogical studies of material culture.Cambridge University Press.;Ysè Tardan-Masquelier.Il linguaggio simbolico, in La Religione ,vol.VI.Utet;A.Leroi-Gourhan. Le ipotesi della preistoria,in Le religioni dei popoli senza scrittura, a cura di Puech.Laterza; N.Spineto.I simboli nella storia dell’uomo.Jaka Book
54)a. -H.U.Von Balthasar.Gloria.Una estetica teolgica, pagg.10,19-20,28-29,31,338. Jaka Book; R.Tagliaferri.La magia del rito.pagg.140-141.Edizioni Messagero.Padova.; b-”Nella nozione ebraica di shem,<nome>,O.Procksch distingue due componenti:l’elemento noetico e l’elemento dinamico.Il primo è il suo significato o etimologia,il secondo implica una concezione arcaica come contenitore di una virtù.della quale è possibile un uso magico.Il nome non offre né una designazione logica né una rappresentazione simbolica,ma ne designa l’essenza segreta e ne contiene la presenza attiva,la potenza.”e ”Nell’episodio della teofania del roveto ardente,Mosè dice a Dio:<Ecco, io vado dai figli d’Israele e dico loro:-Il Dio dei vostri padri mi ha inviato a voi-Mi diranno:-Qual è il suo nome? Cosa risponderò loro?>Dio disse a Mosè:”Io sono colui che sono”(Esodo,3,13-14).Riguardo alla formula ehyeh asher ehyeh,possiamo chiederci se essa esprima il rifiuto di Dio di svelare la prorpia identità,<Io sono chi sono>, oppure se non costituisca una rassicurazione fornita a Mosè sulla sua effettiva presenza a fianco del suo popolo.<”Io sono chi sarò accanto a voi”,come il verbo hayah prevede(essere accanto,come in Aywa,Eva, colei che ti è accanto,sposa di Adamo n.d.a.e Sh.Trigano.Ebraismo,pagg.499-500, in La Religione.Utet).nella teofania del Sinai quel che chiede Mosè ,è di vedere la gloria di Dio(Es.33,18).La proclamazione del Nome divino (Es, 34,6) viene data a Mosè come sostituto della contemplazione diretta di Dio,che non è possibile vedere senza morire.Il Nome di Dio è portatore della sua gloria e della sua potenza”.Ysabel de Andia.I nomi divini alle origini del Cristianesimo,in Religionevol.IV.Utet.
55)a -F.Parente.Le istituzioni politiche del popolo d’Israele e Il pensiero cristiano delle origini,in Ebraismo e cristianesimo,in Storia del pensiero politco,vol.II.Utet;Giovanna Galasso.Il mondo islamico mediterraneo dagli Ommayyadi ai Mamelucchi., in Dal medioevo alla globalizzazione.Salerno ed.;B.Scarcia Moretti.Il sistema Islam,in Maometto e l’Islam,in Il Medioevo(sec.V-XV).Salerno ed.;M.Piantelli.Religione e religioni del mondo indiano,in Storia delle religioni.Laterza;G.Dumezil.Mito ed epopea.L’ideologia delle tre funzioni nelle epopee dei popoli indoeuropei.Einaudi.;Dennis Gira.La comunità buddhista in Il Buddha e la nascita del Buddhismo;Chia-yu Wang.Il confucianesimo;Zwi Werblowsky.Relazioni tra religione e stato in Giappone.tutti in La Religione,vol.III.Utet;b-per la questione qui posta di Hrta,rito e dharma/Dao, vedi A.Brelich.Introduzione alla storia delle religioni,pag198.Ed.dell’Ateneo.Roma;Leda Spiller. Rita e dharma, in L’ordine del mondo,pagg.441-446,e Ysè Tardan-Masquelier.Legge,struttura e ordine del mondo,in I miti della creazione, entrambi in La Religione,vol.IV.Utet. e alla voce rta e Dharma in G.Filoramo.Dizionario delle religioni.Einaudi;E.Benveniste.Il diritto, pagg.358-360,vol II,in Il Vocabolario delle Istituzioni, op.cit.
56)a -J.Derrida.Cosmopoliti di tutti paesi ,ancora uno sforzo.,pagg34-36.Cronopio;E.Levinas.Le città-rifugio, in L’au-de là du verset.Napoli e in Adieu à E. Lèvinas.Galilée; H.Arendt. Le origini del totalitarismo,pagg.398-399.Milano;Per le citazioni dell’Antico Testamento: Numeri,XXXV9-32;Cronache I,6,42 e 52;Giosuè,20,1-9, Per san Paolo:<…mai più stranieri né meteci, ma concittadini dei santi,della casa di Dio>,Efesini,2,19-20 e Alain Badiou:San Paolo.la fondazione dell’universalismo.Cronopio; b- per la Kenosi e le sue implicazioni dottrinarie:R.Tagliaferri.La liturgia del silenzio del sabato santo.In La magia del rito,pagg.421-430.Ediz.del Messagero.Padova;per la relazione kenosi del Cristo e vacuità buddhista,il ragguardevole saggio di Keiji Nishitani “Ontolgia e proferimento” in La relazione io-tu nel buddhismo zen e altri saggi.L’Epos;per la natura profondamente filosofica intorno alla vanità e vuoto di ogni cosa e le implicazioni teologiche in Ebraismo,P.Sacchi in Qohelet,pagg.384-386 in Il Giudaismo dall’esilio alla fine del I Millennio a.C.;Yeshayahu Leibowitz.Qohelet.pagg41-61,in La fede ebraica. Giuntina e Piergabriele Mancuso.Introduzione al Qohelet Rabbah.Giuntina
57) San Paolo.Lettera ai Romani-6,3 e passim
58) Vangelo di Giovanni,3,1-9
59) Sutra del Loto,Libro XXVII, La consegna.Ed.Bur
60) F.Kafka.La partenza, in Tutti i romanzi e i racconti.New Compton.
61) Yu.V. Sidorov, Exponential function, in Encyclopaedia of Mathematics, Springer e European Mathematical Society, 2002.
Leggi l’articolo su Scienze e Ricerche: Vincenzo Crosio, Epistemologia semantica del vuoto: (Ku), il non luogo del non ente (note di epistemologia semantica 4), in Scienze e Ricerche n. 47, aprile 2017, pp. 37-50
Fonte: http://www.scienze-ricerche.it/
VIENI A CONOSCERE LA NOSTRA ORGANIZZAZIONE - Clicca sui loghi qui sotto -
SE TI E' PIACIUTO L'ARTICOLO CONDIVIDILO SUL TUO SOCIAL PREFERITO
QUALCHE PICCOLO CONSIGLIO DI LETTURA