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Home» Psiche»Elogio della Morte
Trionfo della morte già a palazzo sclafani galleria regionale di Palazzo Abbatellis palermo 1446 affresco staccato

Elogio della Morte

Da sempre la morte è una delle poche certezze dell’uomo sulla vita, di ogni essere e la propria

lI suo esserne consapevole ha condotto il filosofo Martin Heidegger a definire l’essere dell’uomo come essere per la morte: alla morte non si può sfuggire, la morte caratterizza la vita dell’uomo come progetto, poiché ne delimita i confini. L’essere per la morte rende evidente che nulla è definitivo, che niente è stabilito e prenderne atto permette all’uomo di giungere a delle decisioni finalmente autentiche.

Nella vita quotidiana, nella frenesia indaffarata dell’inautenticità la morte invece viene minimizzata, quasi dimenticata, come se non dovesse mai arrivare, e l’uomo sfugge il pensiero della morte. La trama di numerosi pensieri gli impedisce di cogliere il centro della propria essenza: la caducità, che invece gli viene messa davanti dall’idea della propria morte. Ascoltando la propria coscienza, l’uomo si rende conto di essere finito: il suo tempo non solo è limitato ma è anche di durata ignota, perché la morte può accadere in ogni istante.

In maniera sciamanica, la morte è una consigliera che rende la visione dell’uomo finalmente limpida.

La morte è una compagna.

La morte ci sfida.

La morte è il cacciatore e noi siamo la preda.

La morte è una vecchia megera che incombe con la sua falce.

La morte è la distruzione del conosciuto.

La morte è un giovane affascinante che ogni volta gusta qualcosa come se fosse sempre la prima volta.

La morte, paradossalmente, rende viva la vita, rivelando quanta “morte” c’è in realtà in quella che chiamiamo “vita”… Chi sa morire, in realtà vive.

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Memento mori, dicevano gli antichi, perché il pensiero della morte consente di dare a ogni cosa il giusto peso.

C’è un altro modo in cui si può intendere la morte: come liberazione. Ma la liberazione può essere duplice: coraggiosa o codarda, evolutiva o regressiva.

Sigmund Freud approfondisce la questione in un saggio del 1920, Al di là del principio del piacere, in cui integra e rivede alcuni tratti della sua celebre teoria della sessualità che tanto destò scandalo all’epoca della sua formulazione, forse proprio per il fraintendimento del termine sessualità (o forse perché dice chiaramente che l’uomo non è un animale razionale come pretende di essere, ma un coagulo di istinti contrastanti).

In Freud sessualità non è tanto l’atto sessuale dell’adulto maturo, quanto un atto mosso appunto dal principio del piacere, e come tale caratterizza l’uomo sin dalla sua nascita. Il neonato durante il primo anno di vita, ad esempio, trae piacere dalle esperienze nutritive (fase orale), in seguito da quelle relative alla padronanza dei processi escretori (fase anale) e così via. A un certo punto subentra tuttavia il principio di realtà: l’uomo si rende conto che non può sempre soddisfare i propri istinti in maniera diretta, o meglio che è più conveniente posticiparli per ottenere altri tipi di piaceri. In tal modo nascono i rapporti umani, la vita associata, al di là della bestialità tipica del soddisfacimento immediato dei piaceri primari, che per loro intrinseca natura renderebbero l’uomo asociale. La repressione del proprio essere istintivo è alla base di quello che infine Freud chiamerà disagio della civiltà: la civiltà reprime gli istinti umani e rende per questo infelici gli uomini, ma tale infelicità è il prezzo della sua fioritura, perché senza tale disagio non potrebbero nascere le arti, le scienze, la filosofia, la civiltà in breve. Il disagio della civiltà non domina soltanto le pulsioni di vita dell’uomo, domina anche quelle istanze che nel saggio del 1920 egli definisce come pulsioni autodistruttive.

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In Al di là del principio del piacere Freud rintraccia infatti una dinamica tipica della psiche umana, ovvero uno schema esplicativo delle energie che muovono gli individui. Esistono due forze contrapposte in equilibrio tra loro, indicate dai termini greci Eros e Thanatos, Amore e Morte. Eros in realtà non è propriamente un sentimento, ma è un istinto primordiale di vita, desiderio di creazione, su qualsiasi livello questa avvenga, spirituale o fisico. Tuttavia nell’uomo alberga un principio del tutto opposto e contraddittorio rispetto a questo: un principio di morte, di autodistruzione.

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Cos’è la morte? Se la vita è lotta, la morte è pace. Ogni uomo in fondo desidera sfuggire alla lotta della vita, al suo dolore: raggiungere il piacere è faticoso, non vi è nulla di facile nella vita e nelle sue pulsioni. L’Eros non è quella cosa dolce e tranquilla dei romanzi ottocenteschi, ma una pulsione impetuosa e aggressiva che richiede una buona dose di energia e lavoro per giungere al suo soddisfacimento. La morte offre riposo; la morte offre il ritorno al nulla in cui eravamo prima di essere qualcosa. Davanti all’angoscia, alla paura del dolore, la morte è pacificazione.

“Quando noi viviamo, la morte non c’è. Quando c’è lei, non ci siamo noi”. Questa frase di Epicuro  rende bene l’idea della dinamica freudiana: accanto all’istinto di sopravvivenza,di affermazione, di godimento, l’uomo possiede un istinto di annullamento, di autodistruzione, di fuga e negazione. La civiltà in questa prospettiva non serve soltanto a limitare la naturale aggressività che caratterizza l’affermazione dei propri istinti erotici in senso freudiano, ma anche quella che l’uomo dirige contro se stesso.

Molti potrebbero pensare che il suicidio appartenga al desiderio di morte; eppure, come ha spiegato bene Arthur Schopenhauer, non è così. Il suicidio è il gesto che cede a quella che ne Il mondo come volontà e rappresentazione viene chiamata volontà; istinto di vita, direbbe Freud. Compie il gesto fatale chi vorrebbe ancora vivere, chi ha una grande sete di vita, ma non accetta le condizioni di quella vita.

Scartando dunque l’idea del suicidio, può essere intesa come liberazione la fuga dalla vita, dall’istante presente, dalla coscienza? In un certo senso si, sebbene in senso primitivo, che comporta quella che potremmo considerare una regressione: l’uomo si libera di se stesso e dal dolore causato dalla consapevolezza di esserci rituffandosi come una goccia nel mare infinito e disperdendosi completamente in essa, scomparendo per sempre. Ma la direzione dello spirito si muove nella direzione opposta: la coscienza non deve scomparire, bensì emergere all’interno di quel grande e oscuro mare.

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Ecco perché dai grandi pensatori si giunge infine a trarre un insegnamento ben preciso sulla morte. Il desiderio di morte è utile al cercatore dello spirito se correttamente inteso.

Occorre comprendere quale parte di sé desidera la morte, e quale morte: la  pulsione che non è stata soddisfatta, o la parte che esiste nonostante la pulsione e il suo (mancato) soddisfacimento?

Platone ha detto per bocca di Socrate:  chi si occupa seriamente di filosofia non ricerca altro che morire ed essere morto. Il vero filosofo, il cercatore desidera morire, ma nessuno ha il diritto di suicidarsi, ci viene confermato senza mezzi termini nel Fedone, dialogo platonico sull’anima immortale. La morte potrebbe essere il più grande bene per gli esseri umani, aveva detto Socrate difendendosi dalle accuse di Anito e Meleto nell’Apologia.

“Date un gallo ad Asclepio, e non dimenticatevene”. Dice Socrate faceto in punto di morte ai propri discepoli. Asclepio è il dio della medicina. Morendo, Socrate è forse guarito dalla più grande malattia, la vita?

“Chi può sapere se il vivere non sia morire, e se il morire non sia vivere? e che noi, in realtà, forse  non siamo già morti?”

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Valentina C.

 

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Pubblicato da: Valentina C.
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