Il Toro Api
Api è una divinità appartenente alla religione dell’antico Egitto, adorata a Menfi sotto forma di toro. Il culto di Api è attestato da Manetone fin dalla II dinastia e alcuni studiosi, ritengono che la divinità fosse adorata già dalla I dinastia.
Spesso Api è messo in relazione con l’altra divinità menfita, Ptah ed infatti uno degli epiteti più frequenti è: “Api vivente, araldo di Ptah, colui che fa salire la verità fino al dio dal bel viso”.
Fin dall’inizio Api fu venerato sotto forma di un toro, nero con macchie bianche, scelto in base a particolari forme delle macchie stesse, considerate segni sacri se raffiguranti una mezzaluna sul fianco e un triangolo bianco sulla fronte.
A Saqqara è stato scoperto un complesso di corridoi sotterranei, detto Serapeum ove sono sepolti, dentro grandi sarcofagi, i tori Api.
Nella sua figura bovina dimorava l’anima di Osiride, e quando il primo (bue) Api morì, essa trasmigrò nel corpo di quello scelto a succedergli il quale, dopo essere stato curato per quaranta giorni in una città sulle rive del Nilo soltanto da donne, caricato poi sopra un’apposita nave dorata, era condotto lungo il corso del Nilo a Menfi, dove era ricevuto dai sacerdoti del dio, attorniati dagli innumerevoli fedeli coi figli, affinché questi ultimi dal suo soffio acquistassero il dono della profezia o arte divinatoria.
Il toro Api veniva consultato in un modo assai curioso. Nel tempio di Osiride erano state predisposte a ricever Api ben due stalle; e a seconda che Api entrasse nell’una o nell’altra di esse, si traevano pronostici di felicità o di sventura pubblica.
Intanto la sua risposta non era ritenuta favorevole, se il cibo messogli dinanzi non fosse stato di suo gradimento; poi il consultatore, prestato un orecchio alla bocca del bue-dio, usciva di corsa dal tempio turandosi con le mani entrambe le orecchie; successivamente uscito all’aperto, la prima parola che pronunciava, era considerata come la risposta di Api.
Il Minotauro
Il toro nella mitologia greca è associato in generale alle divinità fluviali, rappresentate con le corna; a Poseidone (il toro nero), a Dioniso (lo sposo di Arianna) e soprattutto a Zeus (il toro bianco). In questa forma, il signore degli dei, sedusse Europa e di lui si raccontava, certo non casualmente, che fosse stato allevato nell’isola di Creta. Nei miti e nei racconti che hanno a che fare con Creta, infatti, l’immagine del toro ricorre con insistenza.
A Creta Minosse, figlio naturale di Zeus e di Europa chiese ed ottenne dagli dei di legittimare la sua successione al trono con l’invio di un toro: l’animale che emerse dalle acque antistanti l’isola, con membra possenti ed un mantello candidissimo, era talmente bello che Minosse non volle sacrificarlo a Poseidone, come aveva promesso. Lo mandò invece a pascolare con la propria mandria e, al suo posto, ne sacrificò un altro. Da notare come sia ricorrente nei miti e nelle leggende racconti in cui fanno da padrone i vizi e le virtù umane, in particolare la mancanza di coerenza fra le promesse assunte ed i dati di fatto delle azioni compiute. Incoerenza che scatena lampi di vendetta fra gli uomini come fra gli stessi dei.
In questo mito la frode, com’è naturale, non piacque al dio del mare che si vendicò dunque, inducendo Pasifae, sposa di Minosse, ad innamorarsi del bellissimo toro bianco.
Fu così che l’abilissimo Dedalo, ospite della famiglia reale cretese, costruì per Pasifae una vacca di legno (in questo ricorda il famoso “Cavallo di Troia”, tanto bello da indurre i troiani a non dar peso ai moniti di Cassandra, decretando la loro rovina), perfettamente ricoperta di pelle bovina, in grado di muoversi grazie a quattro ruote celate negli zoccoli. Pasifae vi si introdusse e attese l’avvicinarsi del toro, per farsi montare e soddisfare così il suo forte desiderio. Dall’amplesso nacque il Minotauro.
Minosse, c’era da aspettarselo, non gradì il mostruoso tradimento della moglie, anche perché si ritrovò a dover badare al figlio, un gigante con la testa di toro, che si nutriva di carne umana; tuttavia un oracolo suggerì a Minosse di ricorrere a sua volta all’arte di Dedalo, per farsi costruire a Cnosso un palazzo inestricabile, nel quale tener rinchiusi sia Pasifae che il Minotauro; e fu così che commissionò a Dedalo, il Labirinto. Divenuto un termine comune per indicare un luogo dove ci si mette in gioco ed in seguito luogo nel quale si perde la speranza e ci si perde fisicamente e spiritualmente, il Labirinto doveva apparire agli estranei come un luogo inviolabile. La parola deriverebbe da labrys, la doppia ascia che a Creta era l’emblema del potere regale e aveva la forma di due quarti di luna opposti, a simboleggiare il potere di vita e di morte della divinità lunare.
Minosse e Pasifae avevano generato vari figli, tra i quali Androgeo, il quale, giunto ad Atene per partecipare ai giochi in onore di Atena, era riuscito a vincere tutte le gare. Il re Egeo, temendo che la sua presenza ed il suo valore potessero rappresentare un pericolo per la stabilità del regno di Atene, cospirò affinché il giovane cretese venisse tolto di mezzo, tendendogli un’imboscata.
Minosse decise di vendicarsi e allestì una grandiosa flotta contro gli Ateniesi. Il conflitto durò a lungo con esiti incerti, tanto che Minosse decise di rivolgersi a Zeus. Questi indusse una serie di carestie e terremoti che ridussero gli Ateniesi allo stremo.
Consultato l’oracolo di Denfi, esso rivelò che l’unico modo per Atene di uscire dalle difficoltà, era quello di assecondare le richieste di Minosse e cioè d’inviare a Creta ogni nove anni un tributo in vite umane di sette giovinetti e sette fanciulle da dare in pasto al Minotauro. Il pesantissimo tributo fu regolarmente pagato per due volte. Alla scadenza della terza, il valoroso Teseo si offrì come vittima, deciso ad uccidere il mostro ed a liberare Atene dal suo strazio. Nell’impresa Teseo ebbe l’appoggio di Afrodite, ma soprattutto di Arianna, figlia di Minosse che, innamoratasi dell’eroe, gli suggerì il modo di vincere il duplice nemico, rappresentato dal Minotauro e dal luogo-trappola-labirinto in cui era custodito. Con l’espediente di un filo, srotolato all’andata e riavvolto al ritorno, Teseo potè compiere felicemente la sua impresa e uscire vincitore dal Labirinto.
La storia finì però con l’abbandono da parte di Teseo di Arianna a Nasso, dove Dioniso, dio del vino e della viticoltura ordinò a Teseo di lasciar la ragazza sull’isola per farne la sua sposa.
Alla base di quanto sopra esposto dovrebbe sorgere in ciascuno, il dubbio sul motivo di tanti e tali miti (incentrati sulla figura del Toro), che occuparono buona parte del Mediterraneo. Poiché dovrebbe esser chiaro come essi poggiano su verità storiche non ben definite, andiamo a cogliere le motivazioni che spinsero differenti civiltà ad occuparsi del Toro, come espressione del Cielo in Terra. Il primo richiamo ci viene dalla Costellazione omonima: costituisce infatti, secondo i miti, l’immagine del toro candido in cui Zeus si trasformò per attuare il rapimento di Europa.
Nella verità storica, invece, richiama il tempo in cui, secondo la precessione degli equinozi, la Costellazione del Toro coincideva col periodo in cui “cadeva” l’equinozio di primavera, ovvero il tempo in cui, diversamente da oggi, l’equinozio di primavera passava in corrispondenza, con l’asse dell’eclittica coincidente con la Costellazione del Toro. Oggi, ad esempio, si dice che l’equinozio di primavera cada sotto il segno dell’Ariete ad indicare come il sole sia allineato con la costellazione omonima.
Altro esempio ci viene dalla Sfinge (metà uomo, metà leone), la quale, come sembra accettato da molti studiosi, stia a simboleggiare il tempo in cui la precessione degli equinozi simboleggiava il passaggio del sole di primavera in corrispondenza della Costellazione del Leone.
Tutto ciò esalta il valore dei miti e delle leggende, in quanto essi insegnano come l’Uomo Antico (appartenente ad una elite, costituita dalla classe sacerdotale e/o dalle famiglie reali), possedesse conoscenze precise di astronomia che secoli d’oblio successivo nascosero ai più e che in questo tempo dell’Ariete stiamo riscoprendo.
Menzione a parte merita la città di Torino, abitata dalla tribù celtica dei Taurini, i quali assumevano a simbolo, il Toro. La fondazione vera e propria avvenne però, solo intorno al 28 a.C., sotto l’imperatore Augusto, il quale fece dare alla colonia, il tipico impianto urbano a castrum, che sarà quello che ancora adesso è rilevabile, col nome di Augusta Taurinorum. La colonia fu inscritta come tribù romana rurale ed ebbe una struttura definitiva soltanto nel I secolo, con l’edificazione di una cinta muraria. La struttura viaria a scacchiera (il castrum) fu successivamente estesa anche alle altre zone della città, almeno in prossimità del centro.
Arianna ricorda se stessa trepidante per la sorte di Teseo
Oh divino fanciullo (Eros), che con cuore impetuoso accendi infelici e folli passioni, che mesci per gli uomini gioie e dolori; o dea (Afrodite), in quale spire hai fatto cadere la fanciulla avvampata nel cuore, che tante volte ha sospirato per lo straniero dalla bionda chioma! Quali cupe paure ha patito nel suo cuore annientato! Come tante volte si fece più pallida dell’oro mentre Teseo, ardendo per il desiderio di affrontare il mostro feroce, andava incontro alla morte o al premio della gloria! Ma ben accolti e non vani furono i doni promessi agli dei nei suoi voti proferiti in silenzio: come un turbine quando soffia violento sradica e sconquassa il tronco possente di una quercia (…) o abbatte un pino dalla resinosa corteccia con appese le pigne, chè l’albero schiantato alle radici piomba a terra lontano devastando quello che incontra per un ampio tratto, così Teseo prostrò il mostro al suolo con tutta la sua mole, mentre agitava invano le corna contro i venti. Da lì, incolume e ricoperto di gloria, volse a ritroso i suoi passi, guidati all’andata e al ritorno da un filo sottile, perché uscendo dai meandri del Labirinto l’intricata rete di percorsi non gli facesse perdere la giusta via.
Catullo, dai Carmi, LXIV
Fonte: Cerinotti – Grande libro dei Miti della Antica Grecia e di Roma Antica.
Cinzia Vasone
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