“Non sappiamo quali saranno i giorni che cambieranno la nostra vita. Probabilmente è meglio così”
Stephen King
Cosa accadrebbe se conoscessimo il nostro futuro? E il nostro passato?
Tutti vorremmo dare una sbirciatina sul futuro, ecco perché consultiamo oroscopi, oracoli, e persino il nostro Dna (c’è chi ha rinunciato a significative parti del proprio corpo pur di scongiurare eventuali malattie ereditabili geneticamente).
Ammettiamo che tale sbirciatina funzioni; siamo però sicuri di essere sfuggiti all’auto-predizione? Che il futuro sia davvero oggettivo, che prescinda dalla nostra ricerca di saperne qualcosa, è un asserto tutto da dimostrare. E se invece il tentativo di scoprire cosa ci riserva il destino paradossalmente lo plasmasse e determinasse, tirandolo via dall’indeterminatezza in cui era un secondo prima?
Quanto si può davvero intervenire sul nostro destino?
Se possiamo fare questo discorso sul futuro, parrebbe una follia applicarlo al passato.Il senso comune dice che non si può influenzare il proprio passato. Il ghiaccio sciolto può ritornare ghiaccio, ma dalla cenere non si torna indietro al legno dell’albero. La Natura ha reso reversibili alcune leggi e altre no (vedi il secondo principio della termodinamica), per ragioni a noi attualmente imperscrutabili, e forse dovremmo capire quali sono applicabili al nostro tema.
Il tempo è una freccia o un cerchio?
Varie culture hanno parecchio discusso su questo argomento. Per gli antichi greci, come per molte altre culture antiche, il tempo era ciclico, in accordo con quanto accade in natura, ad esempio con le stagioni (anche se abbiamo visto che la natura stessa include leggi lineari e non cicliche). Molti addebitano al cristianesimo l’introduzione di una visione lineare,escatologica, del tempo, con un momento d’inizio e di fine. Comunque sia, la visione lineare è quella tipica dell’uomo odierno, post Rivoluzione scientifica. Quanto è accaduto non si può cambiare, non ritorna, ma quantomeno ciò che accadrà è aperto a varie possibilità. Si potrebbero discutere entrambi gli aspetti: e se il passato si potesse modificare? E se invece il futuro fosse già stabilito e l’unica cosa da fare fosse accettarlo? Qui tuttavia non si intende discutere sulla verità teorica di ciascuna di queste affermazioni ma sulla reazione psicologica che si può avere di fronte ad essi.
E così torniamo al punto di partenza.
Cosa accadrebbe se conoscessimo il nostro futuro? E il nostro passato?
In alcuni ambiti viene detto che non conosciamo il passato perché saremmo incapaci di gestirne il carico emotivo ed energetico. Banalmente, un vecchio è un vecchio perché ha sulle spalle un grave fardello, l’esperienza che lo appesantisce, che manca a un gioioso bambino. Lo stesso potrebbe dirsi per il futuro. Chi riuscirebbe a vivere sapendo che tra dieci anni lo attende un incidente automobilistico? Un tumore? Un divorzio? Perderemmo la gioia di vivere, l’entusiasmo, la capacità di restare nel presente. Ben venga la beata ignoranza, nella maggior parte dei casi, che rende possibile l’esperienza. Soltanto in pochi è presente la divina indifferenza che rende uguali disgrazia e buona sorte, che può accettare il nesso inestricabile che sempre unisce piacere e dolore.
Queste tematiche vengono affrontate in modo diverso in due film, sia pure di taglio molto diverso.
Irréversible, film contestato e discusso per le esplicite scene di sesso e violenza, descrive la triste vicenda di una donna, interpretata da Monica Bellucci, che si era recata con il partner ed un amico in un locale parigino. Per futili motivi la donna si allontana e decide di tornare a casa ma incontra un malvivente che la stupra e la picchia violentemente. Il partner e l’amico decideranno di vendicarsi privatamente ma sbaglieranno nell’individuare il colpevole. Il nucleo del film tuttavia, si potrebbe ipotizzare, non è la vendetta o la violenza, o non solo. Come suggerisce il titolo e anche il taglio delle scene, il vero tema è la capacità di vivere nel presente. Il film si conclude in maniera dissonante rispetto alla conclusione della trama, perché è come se ci fossero due tempi: uno è quello lineare che si conclude in maniera tragica, con la donna in barella verso l’ospedale e i due tipi in loschi e squallidi locali notturni alla ricerca di una sanguinosa vendetta, l’altro è quello che mescola passato e futuro. La scena finale è infatti una di quelle iniziali, poiché ritrae i protagonisti in un momento gioioso e quasi idilliaco, in cui era impossibile prevedere il tragico epilogo. Avrebbero potuto godere della bellezza della vita se avessero saputo cosa stava per accadere? Come avrebbero modificato il loro atteggiamento, se avessero pensato di poter cambiare il futuro? Potranno tornare a essere felici, dopo quello che è accaduto? Una volta nel futuro, sembra suggerirci il film, bello o brutto che sia, questo è irreversibile, e lo si deve accettare come se non ci fosse mai stata scelta.
Un film metafisico, più che fantascientifico, che affronta e sublima tutti questi interrogativi è Arrival, diretto da Denis Villeneuve, regista, non a caso, anche del sequel di Blade Runner. Tratto da un racconto di Ted Chiang, Arrival parte da un classico tema di molte produzioni americane: l’arrivo degli alieni e le reazioni umane a tale evento. Quesro tema, se affrontato in maniera non superficiale, sfida la mente a concepire tutto ciò che la oltrepassa. Come potrebbe essere un’intelligenza biologicamente differente? Che rapporto sussiste tra mente e corpo? Quanti tipi di intelligenza, linguaggio, comunicazione possono esistere? Può una specifica intelligenza comprenderne un’altra di matrice completamente diversa? E se un linguaggio diverso modificasse la nostra stessa percezione della realtà (di cui abbiamo un assaggio quando in un periodo all’estero cominciamo a sognare in un’altra lingua….. cosa accadrebbe se fosse un linguaggio radicalmente diverso da quelli che siamo abituati a concepire come tali?)
Arrival mette in discussione svariati luoghi comuni su queste e molte altre domande. Gli eptapodi, gli esseri strani, incomprensibili, arrivati nei gusci in 12 punti diversi dal pianeta, 12 segni da collegare in un tredicesimo segno o messaggio più grande, sfidano la paura, la debolezza, la capacità di interrogarsi, di provare a capire ciò che si ha davanti senza lasciarsi trascinare dalle risposte stereotipate della logica.
Da un lato l’esercito, la forza bruta, le armi ipermoderne, i sospetti dei servizi segreti, il timore dell’invasione. Dall’altro la forza apparentemente “debole” della conoscenza, della riflessione, dell’empatia, dell’intuizione femminile della linguista Louise Banks.
Cosa fareste se conosceste il vostro futuro? Potendo evitare una tragedia, cambiereste le vostre scelte? E se rinunciare a quella tragedia significasse rinunciare a una grande gioia, a una grande bellezza?
Louise, che ha penetrato il segreto dello strumento, o “arma” di cui gli alieni sono i misteriori portatori, non ha dubbi. Non si può scegliere di tenere soltanto la gioia, ma bisogna accogliere anche il dolore. Il futuro è già accaduto, è lì in un punto di quel cerchio che non conosce prima o dopo, sembrerebbe ineluttabile, ed ecco, devo soltanto sceglierlo, in una contraddizione soltanto apparente.
Da qui discende una profonda responsabilità per le proprie azioni: ogni gesto, per quanto minimo, ha delle conseguenze incalcolabili; ma chi possiede una vista così acuta da essere consapevole degli effetti più remoti delle proprie scelte? E a questo punto, difficilmente un gesto privo di tale consapevolezza può ancora essere definito scelta. Eppure è quello che facciamo continuamente, scegliere senza scegliere.
“Ieri la mia vita andava in una direzione. Oggi va verso un’altra. Ieri credevo che non avrei mai fatto quello che ho fatto oggi. Queste forze che spesso ricreano Tempo e Spazio, che possono modellare e alterare chi immaginiamo di essere, cominciano molto prima che nasciamo e continuano dopo che spiriamo”.
Isaac Sachs (Cloud Atlas)
L’eterno ritorno dell’uguale di cui parlava Friedrich Netzsche si rivela in questa prospettiva molto diverso dalla possibilità di girare la ruota ancora una volta, di ritentare e rimediare a ciò che si è sbagliato, che non è piaciuto o che ci ha ferito o che ci ha distrutto, e così via all’infinito. Non ci sono innumerevoli possibilità, non si può sempre tornare indietro: come Ercole al bivio, inizialmente indeciso tra virtù e voluttà, bisogna agire senza tentennamenti, senza guardarsi indietro. Ogni scelta ne esclude un’altra, è un aut-aut, come diceva il filosofo danese Kierkegaard.
Siamo inseriti in unflusso che non vediamo e comprendiamo se non in minima parte, e che cambia continuamente le cose, e ogni scelta ci fa scivolare irrimediabilmente in una corrente di cui ignoriamo la destinazione.
L’eterno ritorno è scegliere dal punto di vista della divina indifferenza, del vivere il presente per se stesso, a prescindere da passato o futuro. Vivere l’attimo come se fosse eterno significa accettare il mondo per ciò che è, fuori da ogni giudizio o presunta verità, senza imporre a quanto accade una logica o una morale. Accettare non significa essere passivi ma esercitare la volontà di potenza: prendere la decisione di vivere nel presente rende quel presente infinito.
La scelta per la scelta, o il non attaccamento ai frutti delle proprie azioni, è un altro tema che viene fuori dal rapporto con il futuro, noto o sconosciuto che sia: come insegnava già la Bhagavad Gita, la via dell’azione implica il distacco dall’azione stessa e dai suoi risultati. La purezza dell’azione è data da questa capacità di slegare la propria condotta dai veleni della bramosia e dell’avversione che avvincono la mente, eppure per gli uomini di quest’epoca oscura, privi di orecchie per intendere, è difficile da raggiungere.
Chi non comprende la lezione è condannato a ripeterla, come Sisifo col suo masso sulla montagna.
Tutto inizia dove tutto finisce, e viceversa.
“Perché è così buio? All‘inizio è sempre buio”
Valentina C.
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